This Is How They Tell Me The World Ends

Quando l’autrice del libro ha ricevuto la chiamata per iniziare a lavorare al New York Times, nel 2010, era impegnata a scrivere articoli sugli investitori che avevano investito sin dai primi giorni in Facebook, Instagram o Uber ed erano ben consapevoli del proprio status. Il Times però la voleva per un altro tipo di contenuti: la chiamata era arrivata per occuparsi di sicurezza cibernetica, tematica di cui l’autrice sapeva poco o nulla, eppure fu la prescelta.

Nel mondo della sicurezza digitale e degli hacker la attendevano un’infinità di espressioni e concetti con cui avrebbe presto preso confidenza, ma il più importante fu sicuramente, dal primo giorno, “zero-day”, ovvero un difetto di software o di hardware che permette, a chi ne sa sfruttare l’esistenza, la non tracciabilità delle proprie azioni: un po’ una falla e un po’ una sorta di mantello dell’invisibilità. Nell’armamentario di un hacker gli “zero-days” sono lo strumento più critico: uno “zero-day” nel software dei cellulari Apple permetterebbe alle spie e agli hacker con le giuste capacità, la possibilità di entrare senza venire scoperti in qualsiasi iPhone. Una serie di sette “zero-day” nei software industriali di Microsoft Windows e della Siemens permisero alle spie americane e israeliane di sabotare il programma nucleare iraniano.

Trovare uno “zero-day” è un po’ come entrare in modalità Dio onnipotente in un videogioco: si tratta della più diretta applicazione dell’abusato cliché “la conoscenza si tramuta in potere se si sa come usarla”. Uno “zero-day” può infatti permettere di spiare gli utenti di iPhone in tutto il mondo, così come smantellare i controlli di sicurezza di uno stabilimento chimico o far sfrecciare una nave spaziale contro la Terra.