La scena è familiare: tuo figlio lancia un oggetto, urla o si chiude in se stesso. L’istinto ti dice che si sta comportando “male” e che serve una punizione. E se non fosse così? Ogni azione porta con sé un messaggio, anche quando non viene espresso a parole. Il comportamento è comunicazione. E il primo passo per educare è cercare di capire cosa ci sta dicendo quel gesto.
Un bambino che piange non lo fa con l’intento di disturbare. Sta cercando un modo per gestire un bisogno, una frustrazione o una difficoltà emotiva. Il suo cervello, ancora in formazione, non dispone di tutti gli strumenti per tradurre in parole quello che prova. Se rispondiamo con urla o punizioni, la comunicazione si interrompe. Se invece ci fermiamo e osserviamo, possiamo cominciare a leggere quel linguaggio nascosto.
Immagina questa scena. Una bambina di tre anni piange e rifiuta di indossare il giubbotto. Possiamo reagire dicendo: “Se non lo metti, resti a casa.” Oppure: “Ti vedo agitata, vuoi scegliere tu quale giubbotto indossare?” Nel primo caso nasce un conflitto. Nel secondo, invece, si apre uno spazio di collaborazione. La differenza sta nel privilegiare l’ascolto al posto dell’imposizione.
Questo non significa cedere o giustificare ogni comportamento. Significa partire dal presupposto che dietro ogni azione c’è un bisogno che va riconosciuto. E quando questo avviene, l’azione da parte nostra può essere più efficace. Se vediamo un bambino che grida, possiamo chiederci: è stanco? È sopraffatto? Sta cercando attenzione in modo sbagliato? E poi agire di conseguenza, senza perdere il controllo.
Capire cosa c’è dietro un comportamento richiede pazienza e un po’ di allenamento. Ma ogni volta che ci riusciamo, creiamo un ponte, che poi altro non è che la base su cui costruire fiducia, rispetto e collaborazione. Ed è proprio qui che comincia l’educazione più profonda.