Trevor Noah era il più veloce della scuola. Più che di un talento naturale si poteva parlare di un mero istinto di sopravvivenza. Doveva correre, infatti, se voleva salvarsi la pelle. Cosa che accadeva spesso. Anche quando scappare era la sua unica opzione per sottrarsi al bullismo che subiva da parte di ragazzi più grandi e violenti.
Era la sua regola di vita: correre, ovunque si trovasse.
Da bambino, quando viveva a Soweto, la sua città natale, doveva evitare di camminare per strada dopo una certa ora, poiché era molto pericoloso. Gli scontri tra le diverse fazioni della comunità, infatti, erano all’ordine del giorno, e non solo di sera.
Per evitare di essere coinvolti in violenze o rappresaglie non restava altro che correre. Anche se, la maggior parte delle volte, Trevor non sapeva nemmeno quale fosse la fazione da cui scappare: correva e basta. Lui, che non era né nero né bianco, ed era sempre al seguito di una donna sola, oltre che nera. Una delle condizioni più scomode e a rischio, insomma.
Anche dopo la caduta dell’apartheid, nulla cambiò per Trevor. Quando scoppiò quella che fu chiamata la “Rivoluzione senza sangue”. Anche se, a dirla tutta, di sangue ne scorse a fiumi. Solo che non era sangue bianco, quindi la cosa era ininfluente.
Le diverse fazioni di neri, tra cui gli xhosa e gli zulu, anziché accordarsi per decidere chi sarebbe salito al potere, iniziarono a farsi la guerra per le strade della città. Trevor corse e in pratica non smise mai. Nemmeno quella volta, a nove anni, in cui sua madre lo gettò letteralmente da un auto in corsa perché gli zulu, che avevano dato loro un passaggio, riconobbero dalle parole di lei le sue origini xhosa.