Quando pensiamo al cibo siamo spinti a immaginare i piatti, i cibi, gli odori e i sapori che ci appartengono dal punto di vista culturale, o che sono riusciti a catturarci emotivamente nel corso della vita. L’alimentazione nella storia umana, però, è tutta un’altra storia. Come specie siamo stati in grado di mangiare praticamente di tutto, dalle carni dei roditori alle verdure fermentate, dalla corteccia essiccata di arbusti agli insetti. Inoltre, anche se in epoca contemporanea l’industria del cibo ha appiattito i gusti delle persone, la diversità più estrema continua a sopravvivere se guardiamo a tutte le culture alimentari del mondo.
Da qui sorge spontanea la domanda: perché mangiamo ciò che mangiamo? Gli antropologi, i sociologi e gli storici dell’alimentazione hanno elaborato numerose teorie a riguardo. Una delle più convincenti ha radici in quello che viene definito materialismo culturale, un filone che spiega i tratti culturali di un popolo sulla base delle condizioni ambientali a cui è abituato e delle relazioni di potere che intercorrono nella società. Tra i vari studiosi spicca certamente Marvin Harris, un antropologo statunitense il cui libro “Buono da Mangiare” fornisce preziose analisi per andare a fondo nell’affascinante mondo delle consuetudini alimentari della nostra specie. Scritto negli anni ‘80, il libro riesce a precedere tantissime tendenze attuali, dal boom dei fast food alla messa in discussione dei ruoli di genere nelle dinamiche collegate alla produzione alimentare.
Nonostante alcuni pensieri risultino in parte superati, la posizione dello studioso è chiara e illuminante: secondo lui le nostre abitudini con il cibo, i tabù e il concetto stesso di buono non dipendono da motivazioni irrazionali o dal semplice gusto, ma da conoscenze collettive che si stratificano nel corso della storia. In altre parole, anno dopo anno, generazione dopo generazione, le persone tramandano il sapere più funzionale in base alla geografia e al clima di un posto. Pratiche agricole, di pastorizia e di trattamento degli alimenti diventano quindi codici culturali, tabù e preferenze. L’antropologo aggiunge inoltre, sfatando il mito della rigidità della tradizione, che questi processi sono possibili non solo su una scala temporale di secoli o millenni, ma anche breve, nell’ordine di pochi decenni.