Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la corsa occidentale all’efficienza e alla crescita ha avuto una netta accelerazione. I principi dell’economista Adam Smith, volti alla concorrenza e al raggiungimento della produzione massima, erano una sorta di dogma, qualcosa che non veniva, in nessun modo, messo in discussione.
La spinta a fare sempre di più e sempre meglio incontrava il favore di tutti, nessuno escluso; negli Stati Uniti, per esempio, sia il Partito Democratico che quello Repubblicano accoglievano con favore un’ideologia volta all’arricchimento personale e al costante sviluppo economico. Le poche critiche rivolte a questa concezione venivano facilmente accantonate: la crescita era la risposta a tutto, e ciò che da essa derivava, cioè beni materiali come una casa più grande o maggiori quantità di cibo, era visto come fonte unica di appagamento.
Ma come spesso accade anche nelle storie più belle, la magia a un certo punto finisce. E le conseguenze, com’è ormai noto, si sono rivelate piuttosto preoccupanti. Sono emersi, infatti, tre problemi principali legati a questa visione del mondo: la prima è di carattere politico. La crescita economica, di fatto, non tende a creare solo prosperità, ma anche ineguaglianza e insicurezza sociale. La ricchezza che viene prodotta, in sostanza, finisce sempre nelle stesse tasche. La seconda riguarda invece l’ambiente. Stiamo esaurendo le risorse naturali, i consumi sono diventati insostenibili e il riscaldamento globale è forse la sfida più difficile che il mondo si sia trovato ad affrontare. La terza è quella più semplice, ma forse, proprio per questo, più trasversale: la crescita non è più in grado di renderci felici. Queste tre questioni ci inducono a pensare che non ci sarà nulla di buono per noi all’orizzonte se la domanda che continueremo a farci è “come possiamo produrre di più?”.