In inglese esiste una bellissima sfumatura di significato tra la parola solitude, quella solitudine ricercata e desiderata, e loneliness che indica invece la situazione di isolamento in cui una persona si ritrova suo malgrado. Gli esseri umani sono per natura portati alla socialità ed ogni tipo di isolamento può recargli gravissimi danni psico-fisici.
La tendenza all’isolamento era già in vertiginosa ascesa ben prima della pandemia, favorita dall’indebolimento di alcune strutture sociali che prima creavano momenti di aggregazione come le comunità religiose, i sindacati dei lavoratori o le famiglie allargate tipiche delle società agricole. Aggiungiamo a questa destrutturazione sociale gli spostamenti e le migrazioni motivati dalla ricerca di lavoro che sradicano sempre di più le persone e avremo la ricetta perfetta dell’isolamento. È più probabile che le vostre amicizie più care siano a migliaia di km da voi in questo momento che non nello stesso isolato.
In questo scenario la ciliegina sulla torta verso la disconnessione potrebbe essere proprio la tecnologia della iper-connessione. La pandemia ci ha portato a fare in pochi mesi cambiamenti che avrebbero potuto richiedere anni e non è ancora del tutto chiaro che effetto avranno sulle relazioni umane. Infatti, mentre per le persone adulte la tecnologia favorisce un certo grado di connessione autentica, per i più giovani sembra vero l’esatto contrario. È l’uso che facciamo della tecnologia a fare la differenza: usare social e piattaforme online per restare in contatto con qualcuno, conoscersi o interagire in qualche modo ha effetti positivi. Viceversa, scrollare passivamente i post altrui limitandosi ad osservare, fa scattare quel tremendo “effetto paragone” che fa sentire tanto derelitti, soli e sfortunati. Ancora peggio se lo smartphone o la tecnologia digitale servono per evitare le conversazioni faccia a faccia.
La conversazione è un’abilità essenziale nella vita di tutti i giorni, sia in ambito personale che professionale ed è per questo che sarebbe di giovamento a tutti praticare quella che l’autore chiama la "conversazione consapevole", ovvero un tipo di dialogo che permette di comunicare in modo efficace e autentico.