Corre l’anno 2011, e nel mondo del lavoro – e soprattutto in quello della tecnologia - inizia a farsi sentire sempre più spesso il termine “gig economy” - dall’inglese “gig” – ingaggio/lavoretto.
La prima incarnazione di questo nuovo modello si presenta attraverso siti di e-commerce che offrono forza lavoro. Un’azienda può cercare il candidato ideale per un determinato progetto, selezionando tra migliaia di profili, ed ingaggiarlo solo per un particolare progetto, senza legami. E poi, ognuno per la sua strada.
Presto quest’idea si allarga anche a piccoli lavoretti come consegne, dog-sitting, ecc. Un lavoratore riceve una notifica sul telefono appena un ingaggio è disponibile, scegliendo se accettare o rifiutare. Un ulteriore approccio a questo tipo di lavoro consiste nella suddivisione di progetti in piccolissimi compiti, da distribuire a dozzine o centinaia di persone diverse. Progetti come catalogazione di immagini, descrizione di prodotti, risposte a domande frequenti. Ciascun lavoretto richiede pochissimo tempo, e la retribuzione è di pochi centesimi.
Questo nuovo paradigma, si dice, reinventa il mondo del lavoro, eliminando l’idea di “posto fisso” e lavoro dipendente, permettendo a chiunque di scegliere cosa fare, quando, dove. Non avremo più un capo, né un orario fisso. Saremo gli imprenditori di noi stessi. Queste idee si addicono in maniera perfetta ad una fascia demografica, quelli nati tra il 1980 e il 2000, di cui tutti stanno parlando - i millennials. Una generazione che, grazie alle nuove tecnologie, per la prima volta può avere priorità diverse sul lavoro, come flessibilità e soddisfazione personale. Una generazione abituata ad avere tutto a portata di smartphone, contenuti multimediali, shopping, servizi.
Insieme a tutti questi “benefici”, però, la gig economy porta anche tante problematiche: dalla mancanza di stabilità, alla mancata tutela dei diritti dei lavoratori.
Questa sembra una strategia geniale ed innovativa, ma è sostanzialmente una versione aggiornata del “lavoro somministrato”, divenuto popolare già nei decenni precedenti. In poche parole, diventa un modo per un’azienda di avere dipendenti, senza chiamarli tali, e quindi senza assumersi le responsabilità di essere un datore di lavoro.