Attraverso osservazioni e ricerche sul campo, l’antropologia culturale si occupa di studiare gli esseri umani e di indagarne il comportamento all’interno dei gruppi. Lo scopo è cercare di scoprire quali regole tengono insieme il tutto, in che modo funziona una certa comunità o società. Si parte dall’osservazione di un particolare, per arrivare a una generalizzazione.
Nel corso della storia, ci sono stati diversi approcci all’antropologia, che partono da due atteggiamenti, quello relativista, in cui le espressioni culturali si spiegano nel quadro culturale della società che le ha prodotte; e quello etnocentrico, secondo il quale il gruppo di appartenenza si trova al centro di ogni cosa ed è quindi percepito come “buono” rispetto a tutto il resto.
Un approccio molto diffuso alla fine dell’Ottocento era l’evoluzionismo sociale, che classificava l’essere umano sulla base del grado di evoluzione raggiunto. Più avanti si sviluppò il neoevoluzionismo, secondo cui ogni società attraversa diversi stadi di complessità, seguendo un percorso che può cambiare dall’una all’altra. Risale alla fine dell’Ottocento anche la nascita del diffusionismo, che identificava alcune aree del mondo in cui comparivano tratti culturali simili. Durante il Novecento, inoltre, fiorirono altre scuole di pensiero e metodi d’indagine, tra cui lo strutturalismo portato avanti da Claude Lévi-Strauss.
A dispetto della differenza di approccio, il lavoro dell’antropologo procede nello stesso modo e prevede in genere uno stadio di descrizione, uno di analisi e uno di interpretazione, in cui si prova a dare un senso al materiale raccolto sulla base delle informazioni già in possesso e di quelle acquisite.