Anziché essere un rapporto di complementarietà, come tra due poli opposti ma ugualmente necessari al funzionamento della batteria, quello tra uomo e donna è da sempre più simile ad una relazione di subordinazione di una parte della specie rispetto all’altra. Nel linguaggio comune, la parola uomo è sinonimo del concetto stesso di essere umano. In tale relazione sbilanciata, l’uomo è l’essenziale mentre la donna appare, per dirla con le parole della De Beauvoir, “inessenziale”, nel senso di soggetto non sufficiente a sé stesso e non autonomo ma capace di sviluppo e realizzazione solo attraverso o per mezzo dell’uomo.
Comprendere le ragioni di questa subordinazione è un compito arduo poiché non vi è un avvenimento preciso che, ad un certo punto della storia, ha portato all’attuale disparità tra i generi come conseguenza logica e inevitabile. Maschio e femmina, infatti, non sono che due individui della medesima specie umana che si possono definire l’uno rispetto all’altro solo rispetto a fini riproduttivi ma nessuna forma gerarchica esiste da questo punto di vista. Maschio e femmina, in sostanza, rappresentano solo variazioni casuali all’interno della stessa specie.
Le differenze tra i due sessi nelle società pre-agricole venivano tradotte in forme di collaborazione che prevedevano una differenziazione di compiti ma anche una complementarietà dei ruoli. Tale ripartizione, basata inizialmente su aspetti fisiologici, è stata poi cristallizzata e trasformata in legge, precetti morali e regole religiose e a farlo è stata la stessa comunità maschile che nel frattempo aveva preso il sopravvento e cui tali norme servivano.
Se certamente vi sono dei dati biologici che differenziano uomini e donne, essi sono funzionali alla prosecuzione della specie ma non sono di per sé sufficienti a stabilire alcuna gerarchia. Nessuna delle due funzioni - proprio perché complementari - è più importante dell’altra e nessun’altra specie vivente ha trasformato la diversità biologica in una forma di subordinazione.