Siamo negli anni settanta del Millecinquecento e Cipro è un’isola che appartiene alla Repubblica di Venezia da circa ottant’ anni. Di fatto, però, è lontanissima dal centro dell’impero veneziano: dista infatti circa duemila chilometri da Piazza San Marco. Un’infinità. C’è da dire che l’isola, prima di rientrare tra i possedimenti veneziani, è appartenuta per breve tempo ai musulmani e poi è diventata un regno crociato. In più dista soltanto settanta chilometri dalla costa turca. Il dominio cristiano su quella zona, dunque, è mal sopportato dall’impero Ottomano; a detta del sultano una terra che ha conosciuto la vera fede non dovrebbe essere controllata dagli infedeli. Per questo pretende da Venezia un contributo annuo di ottomila ducati, che la Repubblica paga senza troppi problemi per vedersi confermato il suo possesso su Cipro. Ma questo accordo è ambiguo e interpretato in maniera diversa dalle due parti: per i veneziani Cipro è un’importante propaggine del suo impero. Ma dal punto di vista degli ottomani la loro sovranità sull’isola è indiscussa e viene ceduta ai veneziani solo temporalmente, finché risulta conveniente. E infatti a un certo punto il sultano decide di riprendersela. Le voci sulla volontà degli ottomani di riconquistare Cipro si diffondono con rapidità e nel 1569 Venezia entra in stato di allarme: i rapporti di Marcantonio Barbaro, l’ambasciatore a Costantinopoli, sono contraddittori e non permettono ai veneziani di abbassare la guardia. I turchi cominciano a costruire navi da trasporto e fabbricare armi, e la cosa innervosisce non poco i rivali. Ci si aggrappa alla convinzione che l’obiettivo del sultano sia andare a liberare i moriscos, i musulmani sudditi dei sovrani cristiani in Spagna. Il Barbaro e gli altri patrizi veneziani vogliono fortemente credere a questa eventualità. Ma in fondo sanno bene che un attacco ottomano a Cipro è ormai alle porte.