Oggi più che mai il problema del turn over aziendale è una priorità delle aziende, piccole o grandi che siano. Lo stipendio non è più il motivo principale che spinge le persone a restare in un’azienda. Da anni non si sente più nessuno raccontare di aver lavorato per anni nello stesso posto di lavoro, arrivando alla pensione. Il sogno di crescere e invecchiare in un’organizzazione è svanito.
Complici tanti fattori che, nel tempo, hanno acutizzato i sintomi descritti da Matthew Kelly nel 2007, anno in cui è stato scritto Professione Dream Manager. La crisi economica, l’avvento dei contratti a termine e la pandemia, per citarne alcuni. Inoltre, alcune nuove professioni emergenti, ad esempio nel settore digitale, rimangono vacanti per la carenza di talenti.
La previsione fatta dall’autore in merito alla guerra dei talenti è diventata realtà. Chi possiede le competenze più ricercate, oggi salta da un posto di lavoro all’altro rialzando la posta in gioco.
Le persone non vivono più per l’azienda. E l’azienda deve fare i conti con un numero sempre più grande di persone che se ne vanno. Chi si licenzia apre una nuova voce di costo per il reclutamento e la formazione di una nuova risorsa. Ma c’è dell’altro. Chi se ne va lascia un indizio del fallimento dell’azienda. Non riuscire a motivare e ispirare i propri dipendenti a rimanere è la ricetta per fallire.
I soldi non sono un motivo valido per restare. Ci sono persone che, anche se ricevessero un aumento all’anno, andrebbero via ugualmente. Allora qual è il nocciolo della questione? Professione Dream Manager si basa su un concetto semplice. Creare un coinvolgimento attivo delle persone, interessandosi a quali sono i loro sogni. Ancora meglio, aiutandoli a raggiungerli.
Non c’è leva più forte per far sentire le persone motivate che aiutarle a sentirsi realizzate prima di tutto come persone. Su queste fondamenta si basa qualsiasi tipo di organizzazione, come una squadra sportiva o una scuola.