Sibaldi esplora le radici culturali e religiose del concetto di destino, mostrando come diverse tradizioni lo abbiano utilizzato nel corso della storia senza però mai prendersi la briga di definirlo. Nel tentativo di darne una definizione, l’autore rileva come il destino sia spesso percepito come un limite, una sorta di prigione mentale e spirituale poiché, prima di tutto, il destino è una sensazione. In particolare, è quella sensazione che ci fa sentire che qualcosa limita le nostre possibilità e le opzioni della nostra vita in termini di azioni, eventi e risultati.
Il destino, concetto tanto vago quanto inafferrabile, sembra esprimere non tanto il nostro futuro o presente ma il nostro passato. Tutti noi, infatti, fin dalla nascita siamo influenzati da una moltitudine di fattori esterni senza che nemmeno possiamo ricordarli o rendercene conto. Attraverso le esperienze che viviamo e le influenze che subiamo, plasmiamo il nostro modo di agire e percepire il nostro mondo contribuendo così a determinare il nostro margine di azione per il futuro. Attraverso l’apprendimento ed i condizionamenti passati, in sostanza, fissiamo per il futuro ciò che potremo fare o realizzare.
Chi sente di avere un destino si percepisce intrappolato in una vita nella quale non sa come realizzarsi divenendo pienamente sé stesso. Chi ha un destino sente di non poter realizzare i propri desideri e la vita che vorrebbe. Il prezzo dell’avere desideri da realizzare e di volersi ancora sviluppare verso ciò che davvero appassiona è la frustrazione.
A questa sensazione, che in molti provano, si sottrae un secondo e diverso tipo di persone completamente che costituisce anche la maggioranza. Si tratta di coloro che si sono adeguati e adattati al presente e alle circostanze e che per questo non si sentono affatto limitati. Sibaldi chiama questa maggioranza di persone “gli adeguati”, facendo riferimento a coloro che si lasciano guidare dagli imperativi del dovere, di ciò che è loro permesso e di ciò che è necessario fare in nome del buon senso e di una vita rassegnata ma senza grandi sofferenze e interrogativi né desideri.