Potremmo tradurre la parola in vari modi, da “rilassatezza”, a “rallentamento”, a “margine di flessibilità”, ma essenzialmente l’autore si riferisce all’includere nel piano organizzativo di un’azienda (e negli orari dei dipendenti) anche una quantità di tempo e risorse che non siano strettamente legati a uno specifico compito da svolgere. Di primo acchito potrebbe sembrare controintuitivo, perché in questo modo i lavoratori sono meno occupati e da un lato l’efficienza diminuisce. Ma DeMarco ci dice che, in compenso, aumenterà enormemente l’efficacia dell’organizzazione, e quindi, in definitiva, anche i risultati ottenuti.
Avere quel margine di flessibilità a disposizione, infatti, crea uno spazio di manovra che può essere determinante nel promuovere un’azienda più adattiva, innovativa e resiliente. Lungi dall’essere un segno di spreco, il “rallentare” si rivela una componente vitale di un ambiente di lavoro sano, prospero e pronto a reggere le sfide poste dai veloci cambiamenti del mercato odierno.
Anzitutto rallentare contribuisce in modo significativo alla creatività. Quando i dipendenti non sono pressati da scadenze ravvicinate, hanno lo spazio mentale per pensare fuori dagli schemi e trovare soluzioni innovative. L’innovazione raramente nasce da ambienti caratterizzati da estrema efficienza e rigorosa ottimizzazione. Invece, fiorisce in contesti in cui le persone hanno la libertà di esplorare nuove idee senza la pressione di dover ottenere risultati immediati. Un pochino di tempo di inattività, dunque, funge effettivamente da periodo di incubazione per nuovi concetti che hanno così lo spazio per germogliare e svilupparsi.
Avere un margine di flessibilità è fondamentale anche per una miglior risoluzione dei problemi. In un’organizzazione eccessivamente ottimizzata in cui ogni secondo viene preso in considerazione e ogni risorsa è portata al limite, c’è poco spazio per gli errori. Di conseguenza, quando sorgono problemi possono diventare vere e proprie catastrofi se non hai un cuscinetto per affrontarli. Le organizzazioni che hanno invece questo margine di flessibilità intrinseco, hanno lo spazio e la capacità di affrontare i problemi in modo più ponderato e strategico, evitando che piccole grane si trasformino in crisi più grandi.
Ottimizzare di per sé non è una cosa sbagliata, anzi, spesso è un bene, ma l’eccessiva ottimizzazione conduce verso una trappola. Questo perché può portare a una struttura organizzativa rigida e mal attrezzata per gestire cambiamenti imprevisti. In ambienti in cui tutti i processi sono ottimizzati per eliminare ogni minimo spreco percepito, la flessibilità e l’adattabilità ne risentono pesantemente. Senza contare che la rigidità può soffocare anche la crescita perché rende incapaci di virare rapidamente quando le condizioni del mercato cambiano o emergono nuove sfide.
Una ricerca ossessiva dell’efficienza può portare a una cultura del lavoro dannosa, radicata nei risultati a breve termine a discapito della sostenibilità sul lungo periodo. Quando le organizzazioni danno la priorità a ottenere il massimo rendimento da ogni risorsa disponibile, spesso trascurano gli aspetti umani delle prestazioni, come il benessere dei dipendenti, il morale e lo sviluppo professionale. Il risultato finale può essere un ambiente di lavoro caratterizzato da elevato stress, frequenti burnout e, in definitiva, una produttività ridotta.