Rachel aveva smesso di mangiare e di bere, ed era così piccola da non sapere come mai si trovasse in ospedale. La sua cartella clinica non riusciva a presentare un quadro coerente del motivo per cui aveva smesso di nutrirsi, ma i medici avevano emesso il loro “proclama diagnostico” e la ricoverarono con ragazze più grandi che soffrivano di disturbi alimentari. In corsia era considerata un’adepta, le altre cercavano di insegnarle come entrare nel loro mondo, per esempio facendole fare esercizio fisico in modo ossessivo. Malgrado tutto questo, Rachel smise di rifiutare il cibo che prima del ricovero non voleva nemmeno nominare, e tornò a cibarsi normalmente. Un anno più tardi, confidava al suo diario: "Avevo qualcosa che chiamavano anexorea perché volevo essere qualcuno migliore di me".
Sappiamo che la malattia mentale è causata da un’interazione tra fattori biologici, genetici, psicologici e ambientali e che è difficile da concettualizzare. Eppure ancora oggi la psichiatria tende ad assegnare etichette, a semplificare in maniera riduttiva una molteplicità di storie ed esperienze. Invece di ascoltare ed esplorare, gli psichiatri continuano a seguire l’impulso di spiegare e in questo modo danneggiano il paziente: le spiegazioni psichiatriche possono essere inutili e dannose perché fingono di essere neutre, mentre nella loro offerta di chiarimento e consolazione c’è anche molta condiscendenza.
Gli psichiatri parlano molto spesso di “insight” (intuizione), cioè dell’atteggiamento che il paziente mostra di avere verso il proprio problema, ma spesso li utilizzano come una specie di metro che misura quanto egli è d’accordo con l’interpretazione della malattia che gli viene proposta. Si tratta di una gestione pericolosa di questi concetti: Rachel, ripensando al suo ricovero in ospedale di trent'anni fa, si confronta con quello che è successo ad Hava, una ragazza conosciuta in reparto, che è morta poco più che quarantenne per complicazioni dovute alla bulimia. Nei suoi diari, la dodicenne Hava mostrava molti insight sulla sua condizione, e si riferiva spesso ai suoi “squilibri chimici”. Rachel, ovviamente, non aveva nessuna intuizione che le svelasse il motivo del suo male. A posteriori, pensa che questa mancanza di intuizione le abbia impedito di sentirsi bloccata in una narrazione che altri avevano creato per lei, le abbia reso la diagnosi più malleabile e permesso di seguire altre possibilità. Il divario tra il destino di Rachel e quello di Hava è enorme e potrebbe essere stato tracciato da questo atteggiamento verso la possibile spiegazione della malattia, perché “ci sono storie che ci salvano e storie che ci intrappolano”.