I sistemi di moderazione automatica valutano i termini usati online e, quando si affrontano argomenti sensibili, il rischio di censura è alto. Per evitare penalizzazioni, molti utenti scelgono espressioni modificate o allusive. Nasce così un linguaggio alternativo, fatto di parole sostitutive e simboli che rendono “accettabile” ciò che altrimenti verrebbe escluso. Queste variazioni nascono da un’esigenza precisa: restare visibili. Basta infatti una parola giudicata inappropriata per perdere la possibilità di monetizzare un video o vedere un post scomparire dai risultati di ricerca.
Da questa pressione è nato un vero codice collettivo, composto da abbreviazioni, segni grafici e modifiche fonetiche. È la lingua dell’adattamento digitale, un lessico flessibile che si evolve al ritmo delle regole invisibili imposte dagli algoritmi. Il caso più noto è probabilmente la parola unalive, diventata un sinonimo ironico o strategico di “morire” o “suicidarsi”. Nata su TikTok, si è diffusa rapidamente anche oltre la sfera digitale. In un museo di Seattle, per esempio, un cartello usava proprio il termine unalived per riferirsi a Kurt Cobain.
La forza di questo codice sta proprio nella sua capacità di mimetizzarsi. Chi è cresciuto online lo adopera con naturalezza, senza coglierne l’origine strategica. Si crea così un doppio livello di comunicazione: da un lato c’è chi conosce il codice, dall’altro chi lo interpreta letteralmente. È un cortocircuito culturale che attraversa generazioni e contesti, mettendo in luce quanto il linguaggio digitale rispecchi la velocità del cambiamento sociale.
Per chi lavora nella comunicazione, nel marketing o nell’educazione, conoscere questa dinamica è ormai indispensabile. Significa leggere i segnali di una trasformazione più profonda che riguarda il modo in cui le persone scelgono le parole, costruiscono significato e stabiliscono connessioni. Comprendere il contesto che dà origine a queste forme diventa la chiave per instaurare un dialogo autentico con chi le usa.