Prima di partire ad analizzare i contenuti del libro in questione, è utile soffermarsi un momento sul funzionamento del mondo delle start-up. Questo termine non si riferisce soltanto alla fase di lancio di un qualsiasi prodotto o impresa, ma anche a una tipologia di azienda ben precisa, differente da una tradizionale in due aspetti fondamentali.
Anzitutto è progettata per essere scalabile. Con l’aggettivo “scalabile” si intende la possibilità intrinseca per il business di poter aumentare le sue dimensioni, i suoi clienti e il suo volume d'affari in maniera esponenziale, senza però che ciò richieda un impiego di risorse proporzionali. Se ad esempio volessimo aprire una catena di ristoranti, per ampliare il business ed espanderci dovremo ogni volta impiegare la stessa quantità di sforzo pratico ed economico: il costo e il lavoro necessario per aprire un nuovo ristorante, infatti, sarà sempre simile a quello del primo. Se pensiamo invece ad esempio ad aziende come Dropbox, Facebook o Airbnb, il discorso è diverso: una volta trovata la chiave di volta in grado di far funzionare il modello di business, è stato per loro possibile espandersi a livello globale in maniera snella e veloce rispetto alla catena di ristoranti. Grazie a internet, queste aziende hanno potuto scalare il mercato su scala globale, rendendo il loro prodotto a disposizione di chiunque nello spazio di pochi click.
Il secondo elemento che distingue un’azienda comune da una start-up, risiede invece nel non aver ancora chiaro, nelle fasi iniziali, il proprio modello di business. Quando Facebook è nata, ad esempio, si proponeva come un semplice network per studenti universitari. Oppure un altro tipo di compagnia potrebbe ritenere erroneamente che i privati siano i suoi clienti ideali, per poi scoprire invece attraverso test, ricerche e sperimentazione che il loro prodotto funziona molto meglio se venduto alle aziende, seguendo un modello di business b2b.
Il fatto quindi che una start-up sia scalabile e non abbia necessariamente chiaro il modello di business, la rendono un’impresa ad altissimo potenziale, ma anche ad altissimo rischio di fallimento. E visto che l’obiettivo di questo tipo di aziende è quello di scalare a livello mondiale rapidamente, la crescita di un’organizzazione del genere difficilmente potrà essere sostenuta da un unico imprenditore fondatore. Ecco perché le start-up cercano sempre di trovare finanziamenti esterni.
Ma chi si assumerebbe un rischio del genere? Nelle primissime fasi può trattarsi di alcuni singoli business angel, investitori privati che decidono di mettere 10 mila, 100 mila o 1 milione di euro a sostegno della causa nella speranza che quei soldi decuplichino nel giro di pochi anni. Quando poi arrivano a servire somme più grandi, entrano in gioco i fondi di venture capital, ovvero fondi di investimento specializzati in questo tipo di “scommesse” imprenditoriali, che sono troppo azzardate per i mercati ordinari. Semplificando forse fin troppo, possiamo dire che il loro modo di ragionare è il seguente: investire in 10, 20 o 50 start-up, pur sapendo che il 99% fallirà, ma cercando di azzeccarne una che sfonderà sul mercato al punto di portargli ricavi enormi, coprendo al contempo anche tutte le perdite precedenti.
E come arriverebbero esattamente questi enormi ricavi? Tramite la famosa exit, ossia il momento in cui i fondatori e gli investitori fanno plusvalenza vendendo le loro quote della società, dopo che questa è cresciuta. Questo può avvenire in tre modi: vendendo le quote a investitori successivi durante il processo di crescita; vendendo l’azienda a un’altra azienda più grande; quotando l’azienda in borsa e vendendo quindi pubblicamente le quote a chiunque le desideri.