
Epicuro e la filosofia come medicina per la felicità
Il filosofo che liberò gli uomini dalla paura della morte
10min

Il filosofo che liberò gli uomini dalla paura della morte
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Episodi di Storie di filosofia greca
Atene, IV secolo a.C. C’è un giardino rigoglioso alla periferia della città, dove un gruppo di filosofi discute placidamente all’ombra di un grande fico. L’attenzione di tutti è rivolta verso un uomo dalla barba folta e il carisma magnetico. È Epicuro di Samo.
L’autorità del filosofo sui suoi discepoli è fortissima, così forte che di lui ne parlarono anche i latini anni dopo la sua morte. Tra i suoi, Epicuro era venerato come un dio e ogni 20 del mese una festa veniva celebrata in suo onore. Sarà lodato fino a molto tempo dopo la sua morte: «Comportati sempre come se Epicuro ti vedesse» è il precetto chiave della sua scuola, la “scuola del giardino”, che materializza alla perfezione la filosofia epicurea di una vita appartata, frugale, tra natura e amici.
L'amicizia è il valore fondante della scuola. D’altronde, in un momento storico in cui il ruolo delle polis viene ridimensionato a causa della suddivisione dell’impero in tanti regni minori, Epicuro incarna appieno questo nuovo spirito. Distaccandosi da Platone e in parte anche da Aristotele, per il filosofo di Samo la piena realizzazione dei fini umani non si raggiunge con la partecipazione alla vita politica, bensì attraverso la piccola comunità di amici raccolti intorno al maestro, cioè la scuola filosofica.
Epicuro sta ben lontano dalla vita politica, un terreno di conflitti e competizioni da cui l'uomo saggio deve il più possibile astenersi. Non a caso il suo motto è "vivi di nascosto", ed è così che lui fa: non si tratta però di una vita solitaria, ma di una vita che non ricerca nella città la felicità che soltanto i legami di amicizia possono assicurare.
I discepoli e gli amici di Epicuro sono numerosi: nel suo giardino ci sono uomini e donne di ogni estrazione culturale e di ogni età. Ai destinatari della sua dottrina Epicuro non richiede una particolare preparazione culturale: ogni età è adatta per diventare filosofi, anche la vecchiaia. Come leggiamo nella Lettera a Meneceo: “Chi dice che non è ancora il momento di dedicarsi alla filosofia sta dicendo che non è ancora giunto il momento di essere felice”.
Di felicità si discute molto tra i filosofi del giardino. Nel nuovo contesto socio politico emerso dopo la morte di Alessandro Magno cambiano anche gli interrogativi filosofici e diventano fondamentali questioni di tipo etico: la felicità, il piacere, il dolore, la virtù.
Per Epicuro il fine della filosofia – come disciplina e come atteggiamento di vita – è il raggiungimento della felicità, che si identifica nella liberazione dalle passioni, dai desideri e dalle opinioni mutevoli. La felicità epicurea è la serenità del saggio, ed è lo scopo finale di ogni ricerca.
La dottrina morale di Epicuro fa coincidere quindi il piacere e la felicità, ma il piacere di cui parla il filosofo di Samo non è un “piacere in movimento” dato da gioie temporanee, bensì il “piacere stabile” – la liberazione dai dolori e dalle passioni.
Questo piacere è un piacere negativo, un piacere che ci “libera da”, ed è l’unico che coincide veramente con la felicità: per questo la felicità epicurea è definita come atarassìa (assenza di turbamento) e aponìa (assenza di dolore).
Ma questo carattere negativo del piacere impone la scelta e la limitazione dei bisogni.
“Ad ogni desiderio bisogna porre la domanda: che cosa avverrà, se esso viene appagato? Che cosa avverrà se non viene appagato?” Scrive nell’Epistola a Meneceo.
Per Epicuro, la chiave della felicità sta nel rinunciare ai piaceri da cui deriva un dolore maggiore e sopportare anche a lungo i dolori da cui scaturiscono piaceri futuri.
Ed è così che le virtù, in particolare la saggezza, appaiono a Epicuro come la condizione necessaria della felicità: alla saggezza è dovuto il calcolo dei piaceri, la scelta e la limitazione dei bisogni.
Il valore della filosofia sta dunque nel fornire all'uomo quello che Epicuro chiama un "quadruplice farmaco" che permette da un lato di liberarsi dal timore degli dei e della morte, e dall’altro di riconoscere l’accessibilità del piacere e la provvisorietà del dolore. “Vana è la parola del filosofo se non allevia qualche sofferenza umana”.
Ma come riesce Epicuro a sollevare gli uomini dalle proprie paure attraverso la filosofia? Lo fa a partire dalla fisica, spiegando che il mondo non ha nulla a che fare con il soprannaturale.
Come per Democrito, anche per Epicuro nell’universo ci sono soltanto gli atomi – particelle indivisibili che compongono i corpi – e il vuoto, lo spazio nel quale gli atomi si muovono. Quando si aggregano, un corpo prende vita, quando si disgregano, un corpo scompare. Dietro al movimento degli atomi non c’è l'intervento della provvidenza divina e per questo motivo la teoria di Epicuro si inserisce nel filone della fisica meccanicistica.
D’altronde, quando un discepolo chiede conto al filosofo dell’esistenza della divinità, è così che Epicuro risponde: "La divinità o vuol togliere i mali e non può, o può e non vuole, o non vuole né può, o vuole e può. Se vuole e non può, è impotente: e la divinità non può esserlo. Se può e non vuole è invidiosa, e la divinità non può esserlo. Se non vuole e non può, è invidiosa e impotente, quindi non è la divinità. Se vuole e può (che è la sola cosa che le è conforme), da dove viene l'esistenza dei mali e perché non li toglie?" (fr. 374).
Anche l'anima è composta da atomi più leggeri e mobili rispetto agli altri che pervadono il corpo come un soffio caldo. Quando questi atomi si disgregano, l'anima muore. È questa la conclusione a cui giunge la fisica di Epicuro: l'anima è mortale.
E poiché secondo il filosofo di Samo l'anima è la sede di ogni sensazione, tutto ciò che sentiamo e percepiamo è grazie all'anima e quando l'anima muore noi smettiamo di sentire. Ecco perché Epicuro in un famoso passo della Lettera a Meneceo dice che “la morte non è nulla”: perché non possiamo sentirla. La morte – temuta dagli uomini come il più terribile dei mali – non è nulla per noi perché quando ci siamo noi non c'è la morte e quando arriva la morte non ci siamo più noi.
Tuttavia, in un mondo da cui è stata eliminata ogni traccia di potenze divine, Epicuro ammette l'esistenza delle divinità, con una motivazione molto semplice: gli uomini hanno l'immagine della divinità, e quest'immagine, come ogni altra, non può essere stata in loro generata che da flussi di atomi emanati dalle divinità stesse. Ma non c’è ragione di avere paura: agli dei non importa né del mondo né degli uomini, dal momento che ogni cura di questo genere sarebbe in opposizione alla loro perfetta beatitudine.
È qui che si innesta una parte della filosofia epicurea: la logica o canonica, che si propone di dare un criterio – un canone – per raggiungere la verità, e di conseguenza la felicità. Questo criterio viene individuato nella sensazione, nell’anticipazione e nell’emozione.
Per Epicuro la sensazione è data dal flusso di atomi che si staccano dalla superficie delle cose, un flusso che produce immagini o simulacri ( chiamati èidola) uguali alle cose da cui sono originati. Quando tali immagini vanno a stimolare gli organi di senso si generano le sensazioni, ciò che noi apprendiamo dall’esterno attraverso i nostri sensi.
Dalle sensazioni ripetute e conservate nella memoria derivano invece le rappresentazioni generiche o concetti chiamate anticipazioni (prolessi), che permettono di anticipare le sensazioni future.
La sensazione è sempre vera ed evidente: non può essere confutata da una sensazione omogenea, che la conferma, né da una sensazione diversa che, provenendo da un altro oggetto, non può contraddirla. Distaccandosi ancora da Platone, ma anche da Aristotele e Socrate, Epicuro sostiene il primato del senso sull’intelletto: secondo lui la sensazione è il criterio fondamentale della verità. Ma poiché anche i concetti o anticipazioni derivano da sensazioni, anch'essi sono veri e costituiscono un criterio di verità.
Infine, il terzo criterio di verità è l'emozione, cioè il piacere o il dolore, che rappresenta la norma per la condotta pratica della vita ed è fuori dal campo della logica.
Spesso i passi della filosofia epicurea vengono fraintesi, ed Epicuro è erroneamente visto come il filosofo del piacere e del godimento edonistico. Al contrario, l’etica epicurea non è una ricetta per la dissolutezza: affermando che il piacere è il bene sommo, Epicuro non invita a ricercare il maggior numero di piaceri, ma si riferisce al piacere che deriva dalla stabile assenza di dolore e turbamento.
Il fondamento dell’etica epicurea si trova nelle sensazioni di piacere e dolore: lo statuto di bene più alto è riservato al piacere e se c’è il piacere, non c’è il dolore. Ma per il maestro di Samo bisogna perseguire unicamente i desideri e i bisogni naturali e necessari, poiché sono loro che ci permettono di condurre una vita felice e tranquilla, lasciando da parte il resto.
Poiché per Epicuro il piacere è una privazione dal dolore, per privarsi del dolore bisogna sapersi privare anche di alcuni piaceri che li causano.
È evidente quindi che la dottrina di Epicuro non si può confondere con un volgare edonismo: Epicuro è il filosofo di un “piacere moderato”.
L’edonismo è contraddetto anche dal culto dell'amicizia caratteristico dell’epicureismo, così come dall'esaltazione della saggezza, strumento fondamentale per il riconoscimento e la selezione dei piaceri. L'atteggiamento dell'epicureo verso gli uomini è definito dalla massima: “È non solo più bello ma anche più piacevole fare il bene anziché riceverlo”.
L’epicureismo viene spesso accostato anche al movimento letterario e artistico ottocentesco dell'estetismo – i cui maggiori esponenti sono Oscar Wilde e D’Annunzio –, che è visto come una nuova forma di edonismo. Tuttavia, il saggio epicureo vive una vita tranquilla e serena, mentre l’esteta conduce una vita piena d’eccessi e di turbamenti. Insomma, la celebre citazione di Oscar Wilde secondo cui “il miglior modo per eliminare una tentazione è cedervi” non avrebbe trovato d’accordo Epicuro di Samo.
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