
Socrate - Il filosofo che insegnò alle persone a porsi domande
“Io so di non sapere” il motto che portò Socrate, padre della filosofia, alla morte
14min

“Io so di non sapere” il motto che portò Socrate, padre della filosofia, alla morte
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Episodi di Storie di filosofia greca
Se le pareti della cella, in cui l’uomo era rinchiuso ormai da settimane, avessero potuto parlare avrebbero raccontato di un vecchio dal corpo piccolo e tozzo e il cui viso, incorniciato da una folta barba bianca, aveva, in mezzo, un naso piatto e schiacciato. Quell’aspetto, così singolare e diverso da quello degli altri greci che affollavano le strade dell’antica Atene, altro non era che una maschera, dietro cui si nascondeva la mente brillante del filosofo ateniese Socrate.
Socrate, calmo e sereno nonostante sapesse bene ciò che di lì a poco lo aspettava, era seduto circondato dai suoi amici e scolari. Gli stessi con cui aveva dialogato fino a poco prima e che, ansiosi, ora lo scrutavano, aspettando.
Di lì a pochi secondi, infatti, Socrate avrebbe bevuto dalla ciotola che gli stavano porgendo e che conteneva il veleno che lo avrebbe portato alla morte. Fino alla fine gli amici avevano tentato di fargli cambiare idea proponendogli di fuggire. E Socrate il tempo di fuggire lo aveva avuto. Anche in tribunale avrebbe potuto scegliere l’esilio invece della pena di morte. Ma aveva deciso quest’ultima ben conscio della sua scelta. Fuggire? Era lui capace di scegliere la fuga o l’esilio volontario dalla sua città e, soprattutto, dalle sue convinzioni? No.
Del resto, qual era stata la sua colpa più grande? Come aveva fatto un uomo semplice, dall’aspetto così apparentemente innocuo e vestito con abiti umili, ad inimicarsi i politici più influenti di Atene? La saggezza del dubbio era la sua colpa. Socrate aveva una sola vera certezza, che lo accompagnava sempre lungo tutte le strade, in tutti i mercati e piazze in cui si fermava a dialogare con la gente: “Io so di non sapere”. E proprio quell’unica certezza lo avrebbe portato a quella fine.
L’anziano uomo bevve e si alzò per camminare avanti e indietro nella cella. Dopo poco tempo, si sentì bruciare la gola e subito dopo paralizzare i piedi e le gambe. Si fermò per sedersi, il veleno stava facendo effetto e a breve avrebbe raggiunto i polmoni e il petto provocandogli allucinazioni e convulsioni. Socrate sapeva che stava per morire, ma non era spaventato, anzi era convinto che anche nella propria morte ci fossero cose che avrebbero soddisfatto la sua sete di nuove conoscenze.
La sua morte, quindi, non riguardava più lui e le sue convinzioni, ma la giustizia. Era ben convinto, infatti, che la morte è meglio di una vita vissuta male, in cui è vietata la possibilità di porsi e porre domande e poterne poi cercare liberamente le risposte. Questa libertà, per lui, era più importante anche della sua stessa vita.
Quello che aveva condannato Socrate a morte era la sua abilità nel fare domande semplici, ma che andavano dritte al punto. Era in quelle domande che i politici più influenti di Atene avevano visto il pericolo maggiore. Socrate, infatti, non andava nelle accademie o nei luoghi di studio, ma per le strade. Si fermava nei mercati e nelle taverne e lì, con il suo motto ripetuto come un ritornello continuo “Io so di non sapere” e con domande sempre efficaci, metteva in discussione la conoscenza comune delle persone.
Socrate, quindi, era convinto che solo mettendo in dubbio tutto e ammettendo di non sapere niente, di non avere alcuna certezza, si può riuscire a raggiungere tutta la conoscenza. Ammettere di non sapere, infatti, apre la mente, passo fondamentale per la crescita personale e per raggiungere nuove conoscenze. Quindi, secondo Socrate, prima che un nuovo pensiero possa svilupparsi, bisogna per forza di cose mettere in dubbio quello già esistente.
Ogni concetto va messo in discussione per poterne raggiungere uno nuovo. Ecco perché, secondo lui, il sapere è, sostanzialmente, sempre temporaneo.
Ed ecco perché Socrate faceva domande e insegnava ai suoi interlocutori a dubitare, perché solo così avrebbero raggiunto nuove conoscenze.
Ma era lì che gli uomini più influenti della città avevano visto la minaccia più grande all’ordine costituito. Socrate non aveva paura di sembrare strambo o eccentrico camminando per la strada facendo domande e fermando la gente al mercato. E la sua mancanza di timore fece paura ai politici della città.
Iniziarono a domandarsi: se questo vecchio non ha paura di mettere in discussione tutto ciò che esiste, non finirà, presto o tardi, per mettere in discussione anche l’ordine sociale che abbiamo costruito? Atene a quel tempo era appena uscita da una sconfitta dovuta a una lunga guerra contro Sparta. Aveva perso supremazia e parte del suo potere e, seppure la democrazia era stata restaurata, l’ordine era ancora molto fragile.
Se persone come Socrate andavano in giro a fare domande e insinuare dubbi nella testa della gente, dei giovani specialmente, non si poteva finire per rovinare tutto? E se queste persone, attraverso i suoi discorsi, avessero trovato coraggio e spunto per provocare una ribellione o un colpo di stato per rovesciare la democrazia?
Ecco perché alcuni degli uomini più potenti della città stato, temendo di perdere il proprio potere, decisero di agire prima che la situazione degenerasse e con dei pretesti lo portarono in tribunale. Queste le parole dell’accusa tratte dall’opera Apologia di Socrate di Platone “Socrate commette reato non credendo negli dèi in cui crede la città e cercando di introdurre nuove divinità; commette anche reato corrompendo i giovani. Pena, la morte”. Ad accusarlo, di fronte al popolo ateniese, fu un giovane di nome Meleto, che venne a sua volta istigato e sobillato contro di lui, dai ricchi politici e militari Anito e Licone.
Se Socrate fosse rimasto nelle accademie e nei luoghi di studio probabilmente nessuno gli avrebbe detto nulla. Ma andare per la strada, mescolarsi con la gente comune, fece insospettire e allarmare i politici della città. Per lui era la piazza il cuore della democrazia e non i luoghi di studio.
Era lì che, grazie allo scambio di idee e al dialogo, si poteva raggiungere il vero sapere. Grazie al suo metodo fondato sul dialogo, chiamato ‘maieutica’, aiutava il suo interlocutore a raggiungere la conoscenza contestandolo e stimolandolo con domande specifiche, non dandogli lezioni o sermoni. Così aiutava le persone a porsi domande e a far nascere nuovi pensieri e conoscenze.
Una volta che questi avevano raggiunto la conoscenza, secondo Socrate, anche quella sarebbe stata messa in discussione perché il sapere non ha mai fine, non c’è una verità assoluta, anzi, è un processo continuo al cui inizio c’è sempre il principio: “Io so di non sapere”. Maieutica significa ‘ostetricia’ e infatti Socrate paragonava il suo metodo a quello delle ostetriche. Come queste aiutavano le partorienti a far nascere i propri figli, così lui aiutava le persone a far nascere la conoscenza con le sue domande.
È lui stesso a raccontarlo: “La mia arte” spiega l’anziano filosofo nell’opera platonica Teeteto, “è in tutto simile a quella delle ostetriche, ma ne differisce in questo, che essa aiuta a far partorire le anime e non i corpi. E come le ostetriche sono sterili, anch’io non posso generare, ma ho la capacità di aiutare gli altri a farlo”. Il compito di Socrate, quindi, non è quello di insegnare, ma di applicare l’arte della maieutica, ossia l’ostetrica, per aiutare l’ascoltatore attraverso il dialogo e lo scambio di domande e risposte, a ricercare la verità e la conoscenza che già ha dentro di sé. Mentre le ostetriche aiutano le partorienti a generare i figli, lui aiuta l’interlocutore a generare la verità e la conoscenza: “Da me, non hanno imparato mai nulla, ma da loro stessi scoprono e generano molte cose belle”.
Dato che, quindi, la conoscenza reale ha inizio solo attraverso il dialogo e le domande, per questo motivo Socrate scelse di mettere in pratica la sua arte per strada e nei mercati, dove pensava fosse più utile ed efficace. Ecco spiegato il reale motivo per cui venne accusato, giudicato colpevole e condannato a morte per avvelenamento dal tribunale di Atene.
Il corpo senza vita di Socrate giaceva disteso nella cella del carcere. Gli amici più fidati, quelli che lo avevano accompagnato fino a quel momento, gli chiusero le labbra e gli occhi. Fu in quell’esatto istante che si resero conto di aver perso non solo un amico, ma un uomo saggio e colto, forse uno dei più sapienti fra quelli vissuti nel suo tempo.
E fu così che, all’età di 70 anni nel 399 a.C. il vecchio Socrate morì.
Avrebbe potuto cavarsela certo, ma il suo metodo di dialogare, mettere in dubbio e in discussione tutto, il suo motto costante “Io so di non sapere” finì per inimicargli tutti coloro che da questo avrebbero potuto perdere il potere e che si sentirono messi all’angolo da questo suo modo di agire, a cui non sapevano come rispondere. Così risposero nell’unica maniera che pensavano fosse la più veloce e giusta per loro. Addirittura in tribunale, infatti, Socrate dimostrò di non rimpiangere nulla di ciò che faceva. Dimostrò, anzi, di sapere bene che le accuse che gli avevano mosso erano solo dei pretesti. Lasciò che la giuria capisse che egli dubitava anche della loro autorità e con ironia e fermezza si rifiutò di chiedere clemenza.
Socrate, infatti, si difese da solo e riuscì a controbattere a tutte le accuse. Ad esempio, quando Meleto lo accusò di corrompere i giovani, Socrate, difendendosi abilmente, riuscì a dimostrare la debolezza dell’accusa. Quest’ultima infatti, non aveva ben chiarito chi avrebbe potuto avere la competenza, fra tutti i cittadini, di educare i giovani. Risultava, quindi, molto strano che fra tutti gli ateniesi, solo Socrate fosse l’unico corruttore e non un educatore. Meleto restò senza parole per la maestria dimostrata dall’anziano filosofo.
Questo, però, non bastò a salvarlo dalla condanna. Socrate fu dichiarato colpevole con sessanta voti di maggioranza. I giudici, allora, chiesero che venisse condannato a morte, ma, come era usanza ad Atene a quel tempo, venne chiesto a Socrate quale fosse la pena che pensava di meritare e lui rispose, in segno di sfida, che credeva di dover essere mantenuto a spese pubbliche per ciò che aveva fatto, aiutando la città. In seguito acconsentì a farsi multare, ma la somma era talmente bassa, che alla fine, messe ai voti le due proposte, la maggioranza scelse per la condanna a morte. Se avesse deciso di supplicare la giuria, facendo ammenda, probabilmente se la sarebbe cavata con l’esilio e la morte gli sarebbe stata risparmiata. Non volle fuggire perché per lui le leggi e la giustizia erano sacre, anche quando venivano applicate in maniera ingiusta. Per lui era meglio morire subendo un’ingiustizia, piuttosto che vivere fuggendo e compiendone un’altra.
Quindi accettò serenamente di morire conscio che, con il suo agire, aveva contribuito a risvegliare la curiosità, il dubbio e le grandi domande che rendono la vita degli uomini degna di essere vissuta. Non lasciò opere scritte ma i suoi amici e discepoli, tra cui Platone, lo fecero, rendendo immortale il pensiero di colui che ancora oggi è considerato da molti il padre della filosofia.
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