Durante la Seconda Guerra Mondiale, nonostante il periodo di estrema tensione generale, gli scienziati non hanno perso tempo, e si sono divertiti a studiare qualsiasi cosa in qualsiasi situazione.
Tra questi studiosi ce n’è uno, che osservando vari funzionari di guerra svolgere compiti estremamente ripetitivi, decide di domandarsi: com’è possibile che delle persone riescano a mantenere l’attenzione su compiti così monotoni e noiosi per lunghi periodi di tempo?
Parliamo di Norman Mackworth, uno psicologo e scienziato cognitivo molto noto per i suoi studi sulla vigilanza e l’attenzione.
Ciò che ha scoperto, è che le persone non riescono a mantenere l’attenzione su compiti monotoni per troppo tempo. Questa è una cosa che, soprattutto noi oggi, sappiamo bene, ma prima non era così palese come cosa.
Per arrivare a questa conclusione, Norman ha ideato il Mackworth Clock Test, un test ideato proprio per valutare la capacità di mantenere l’attenzione su compiti ripetitivi. Come funziona: su uno schermo, c'è un cerchio con un pallino rosso che si sposta di posizione in posizione lungo la circonferenza. Di solito, il pallino si muove in modo regolare, ma ogni tanto salta una posizione. Quando il pallino salta la posizione, la persona deve premere un tasto il più velocemente possibile.
In pratica si misurano due parametri: il tempo di reazione, cioè il tempo che le persone impiegano per agire rispetto a uno stimolo, e la precisione, cioè il grado di accuratezza della risposta del soggetto.
Dopo centinaia di test, viene fuori che la precisione cala drasticamente e il tempo di reazione aumenta dopo i primi 30 minuti, portando Norman a elaborare il fenomeno del “Decremento della Vigilanza”.
È stato il primo a porre le basi della famosissima curva dell’attenzione che oggi conosciamo più o meno tutti.
Ma andiamo un po’ più avanti.
Siamo negli anni 80’ del 900’, e gli studi sull’attenzione, come abbiamo visto, sono in aumento.
In questo periodo, il famoso e rinomato psicologo Donald Norman, assieme al collega Tim Shallice, propongono un framework, cioè un modello teorico, che tenta di spiegare in che modo funziona l’attenzione. Decidono quindi di suddividerla in due: attenzione volontaria e attenzione automatica.
Questa suddivisione è tra le più accettate nell’ambito scientifico, di ricerca e accademico.
Come funzionano.
Quella automatica non richiede un controllo volontario e agisce nel momento in cui ci sono situazioni e ambienti familiari. Quella volontaria si attiva in quelle situazioni in cui serve assolutamente controllo cosciente in modo da rispondere a situazioni nuove o uniche.
Ad esempio, quando scriviamo, stiamo utilizzando l’attenzione automatica; siamo esperti, lo facciamo da tantissimi anni e non c’è bisogno di essere propriamente coscienti per riuscire a scrivere una frase di senso compiuto. Quel processo si dice quindi che è automatizzato.
Quando invece stiamo svolgendo compiti specifici, che richiedono precisione, o magari se stiamo facendo una cosa per la prima volta, lì viene attivata l’attenzione volontaria, che ci pone in uno stato mentale più cosciente e attivo.
Al di sopra di queste due attenzioni, poi, c’è un terzo sistema, che Norman e Shallice chiamano SAS: Supervisory Attentional System.
E cos’è mo sto SAS?! Come dice il nome, è una sorta di sistema che supervisiona il modo in cui viene distribuita l’attenzione.
Questo sistema è coinvolto anche nella pianificazione e nella risoluzione di problemi. Un esempio quotidiano in cui il SAS può essere particolarmente attivo è il momento in cui una persona si prepara per uscire di casa al mattino.
Immaginiamo questo scenario, che ad alcuni sarà molto familiare: dobbiamo andare al lavoro (o all’università, o dovunque sia) e abbiamo una serie di cose da ricordare e da fare prima di lasciare la casa. Questo include controllare che tutte le finestre siano chiuse, spegnere le luci, preparare e mettere in borsa tutti i documenti necessari per una riunione importante, preparare la colazione e assicurarci di portare le chiavi della macchina.
In questo caso, anche se è un’azione che ripetiamo ogni giorno, mettiamo comunque in campo l’attenzione volontaria, perché i compiti che andiamo a svolgere sono specifici, e richiedono accuratezza e precisione.
Durante la quotidianità, queste due tipologie di attenzioni, l’automatica e la volontaria, si alternano tra loro in continuazione, senza sosta, e vengono supervisionate dal SAS.
Ora, se prendiamo il modello di Mackworth, e lo uniamo a quello di Norman e Shallice, arriviamo a una conclusione: quando intraprendiamo un compito impegnativo, inizialmente mettiamo in atto l’attenzione volontaria, ma andando avanti nel tempo, avviene man mano uno switch dovuto al decremento della vigilanza, che ci sposta sempre più all’utilizzo dell’attenzione automatica.
Riprendiamo l’esempio della lettura fatto nella tappa precedente di questo percorso formativo:
immaginiamo di sederci a leggere un libro. Quando iniziamo, la nostra attenzione è completamente focalizzata (attenzione volontaria) perché siamo curiosi di conoscere trama, personaggi ed eventi. La mente è attivamente impegnata nel processare informazioni nuove e nel creare connessioni.
Con il passare del tempo, però, la mente comincia a vagare. Magari iniziamo a pensare alla lista della spesa, a un messaggio da mandare, o a quante pagine mancano per finire il capitolo. Questo è il decremento della vigilanza che Mackworth ha descritto: la capacità di mantenere l’attenzione diminuisce gradualmente, finendo in un tipo di attenzione più automatica. In questo stato, potremmo continuare a leggere, ma non staremo più processando le informazioni con la stessa intensità e consapevolezza di prima.
Norman e Shallice ci aiutano a capire meglio cosa succede in questo contesto. Secondo il loro modello, quando l’attenzione volontaria si “stanca”, subentra l’attenzione automatica. Continuiamo a scorrere le righe del libro, ma senza la stessa attività di prima. Il SAS (Supervisory Attentional System) cerca di mantenere un certo livello di supervisione, ma se siamo troppo stanchi o distratti, la qualità della lettura ne risente.
Questo processo può spiegare perché a volte possiamo leggere una pagina intera senza ricordare nulla di quello che abbiamo letto: il nostro cervello era passato all'attenzione automatica, limitando la nostra capacità di assimilare le informazioni in modo efficace.
E questo processo possiamo traslarlo più o meno a tutte le attività che facciamo durante la giornata. Per questo motivo, diciamo due cose fondamentali da tenere a mente.
Bisogna:
- trovare strategie per mantenere l’attenzione volontaria attiva per più tempo possibile;
- ma soprattutto, le pause. Per massimizzare il più possibile la nostra capacità di concentrazione, è fondamentale regolarizzare i momenti di riposo.
Sotto un punto di vista neuroscientifico, questo è spiegabile in termini di attività cerebrale. Prendiamo uno studio dell’anno scorso, il 2023, condotto su dei team di lavoro. L’indagine mostra che delle pause di 10 minuti tra un meeting e l’altro risultano in livelli positivi di asimmetria-alfa frontale. Tradotto, significa che l’attività della corteccia frontale, l’area responsabile della razionalità e della concentrazione, è più stabile, favorendo così il coinvolgimento e il focus.
Di studi simili ne sono stati fatti a bizzeffe, e il risultato è sempre lo stesso. Le pause sono fondamentali. Ma, come ogni cosa, se vengono fatte, come dicono i latini, ad cazzum di canis, non funzionano e, anzi, possono diventare un ostacolo alla concentrazione.
Nella prossima lezione approfondiamo un discorso fondamentale, relativo proprio alle pause e al riposo, e vedremo sotto una nuova luce ciò che consideriamo spesso un nemico: la distrazione.
Sembra contro-intuitivo, ma a noi piacciono le cose controintuitive, ed è facile rendersi conto come, in realtà, le distrazioni possano diventare nostre alleate per migliorare il focus e la produttività in maniera drastica.
Ci vediamo di là!