
Paura di non essere all’altezza dell’altro
Usa la paura del giudizio come strumento di consapevolezza
8min

Usa la paura del giudizio come strumento di consapevolezza
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Episodi di Paura di avere paura
Da piccolo bastava uno sguardo per farmi cadere il mento verso il basso. In quegli occhi, su quei volti, leggevo disprezzo, diffidenza, disgusto. Camminare con una protesi mi faceva sentire una calamita: tutti intorno a me sembravano pezzi di ferro pronti a scagliarsi addosso, era come attirare - semplicemente attraverso il nostro movimento più naturale - l’attenzione di tutti. Un’attenzione che non desideravo, men che meno QUELLA attenzione.
Muoversi grazie ad una protesi produceva e produce ancora una quantità di interesse che non sempre ricerchiamo. Ignoranza e curiosità rappresentavano le motivazioni intrinseche, dentro quegli sguardi, che più di qualsiasi altra cosa io reputavo giudicanti: mi sentivo sul banco degli imputati per una cosa non commessa, per un reato di cui non ero colpevole, quello di essere un po’ diverso dai miei coetanei.
A fronte di quello sguardo giudicante, non riuscivo a sostenere l’attenzione e irrimediabilmente, chinavo il capo come in segno di resa, di sconfitta: semplicemente, non ero all’altezza del mondo e quello era il modo che il mondo aveva di dirmelo con molta chiarezza.
Avevo paura di quel giudizio e l’unico modo per evitarlo era non incontrarlo. Per fare a meno di dover abbassare il capo, c’era solo una cosa da fare: stare da soli, rintanarsi. Per diversi anni, i miei migliori amici sono stati i LEGO e i giochi di società che, ebbene sì, facevo da solo, interpretando più ruoli nella stessa partita, simulando reazioni e mosse cercando di far finta che l’avversario fossi io stesso, quasi separandomi da me stesso durante la stessa partita.
Con i mattoncini colorati ho costruito epiche battaglie cavalleresche medievali, campionati interi di Formula Uno, persino campionati di calcio di Subbuteo in assenza dello stesso, ma usando gli omini colorati e una pallina fatta di stagnola.
Quello era il mio mondo. Per non avere paura mi bastava stare con la migliore persona possibile, la più accogliente e comprensiva al mondo, quella che mi amava per come ero fatto: me stesso.
Una vita orribile? Niente affatto! In quegli anni mi sono divertito un mondo! Nessuno poteva entrare nel mio universo, ero il dio del mio tappeto su cui consumavo tute a profusione, irrimediabilmente bucate sul ginocchio sinistro… Nonché l’unico.
Non mi lamentavo di questo, anzi: per me stare da solo era fonte di grande soddisfazione, non avevo bisogno di niente e nessuno. Quando mettevo la testa fuori casa, temevo che prima o poi avrei incrociato quello sguardo e, ancora una volta, non avrei retto, avrei desiderato ritornare a casa, coi miei LEGO pronti ad affrontare un’avventura o una corsa contro il cronometro.
La paura del giudizio mi attanagliava per due motivi: il primo è che immerso nel mio bias cognitivo non vedevo altro che quel genere di sguardi, che probabilmente non era altro che una piccolissima minoranza. E’ come quando ti focalizzi su di una marca e modello di auto, magari di un colore particolare, e ogni giorno incredibilmente tendi a vedere solo quella: è un giudizio del nostro presente avulso dalla verità, arricchito di una versione a senso unico della vita.
Non vedere altro mi dava la sensazione che tutti fossero interessati a me, alla mia camminata, alla mia zoppia, alla mia sensazione di essere anti-estetico, diverso e inadeguato.
Il secondo elemento era legato al giudizio che io stesso avevo di me: quello sguardo lo noti se è proprio anche di te. E io, nei primi anni della mia vita, giudicavo me stesso esattamente come tutte le persone che vedevo trafiggermi con poca eleganza giudicando negativamente la mia camminata.
Era chiaro, ma forse non così tanto, se ci penso, che io e loro eravamo una cosa sola, eravamo allineatissimi, eravamo un team: schierati con la maglietta dei detrattori, dei sottolineatori del difetto, evidenziatori del malessere, della stortura, del problema, del limite.
Io e loro, i miei ipotetici nemici, eravamo più affini di quanto io credessi, così concentrati come eravamo a vedere il male al posto del bene. Oggi non solo non la penso più così, ma non penso neanche che male sia veramente male e che bene sia sempre e comunque bene… ma questa è un’altra storia!
Avere paura del giudizio altrui dovrebbe farci pensare, prima ancora che indignarci. Se qualcosa ci colpisce è perché noi stessi la prendiamo in considerazione nello stesso identico modo e forse, guarda un po’, i primi a doversi guardare dentro siamo proprio noi stessi.
Oggi il mondo è cambiato. Forse sarebbe più giusto dire che il mondo dice di essere cambiato. In alcuni casi lo è ma vi assicuro che quello sguardo lo incrocio ancora, eccome. La differenza non sta nel mondo, sta in me. Oggi quando qualcuno guarda con un eccesso di curiosità un po’ invadente il mio essere una persona con disabilità, entro nel merito, apro le porte ad una possibile coltellata al cuore. Lo faccio dicendo “posso aiutarla?”... “cosa posso fare per te?”... “E’ la prima volta che vedi una protesi, vuoi chiedermi qualcosa ma non ti osi? Per me non è un problema, puoi farlo!”...
Difficile? All’inizio sì. Ma poi diventa liberatorio. La maggior parte delle persone è sorpresa davanti ad una manifestazione di vulnerabilità così aperta e il risultato è che si aprono anche loro: solitamente ne nasce un dialogo, un momento di crescita, una risposta inaspettata, un collegamento ad un parente in difficoltà o un amico che ha perso qualcosa e con cui si fa fatica a parlare. E’ una crescita per entrambi: da questa parte, so che ho fatto del bene a me stesso perché più parlo della mia consapevolezza e più questa diventa reale, attraversando la paura come una lama nel burro. Dall’altra parte so che lo scambio non finisce lì ma corre a casa, dalla famiglia, dagli amici, dai conoscenti, e dilaga, dilaga e dilaga. Dove finirà? Chi può dirlo?
Ho ancora paura? Certo! Ma non lascio che mi vincoli a vivere una vita che non è la mia, la attraverso sapendo che dall’altra parte c’è un risultato, un saporito risultato frutto anche di quella stessa paura.