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Paura di restare da solo
Non lasciare che i tuoi timori definiscano le tue relazioni
7min
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Non lasciare che i tuoi timori definiscano le tue relazioni
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Una delle esperienze più intense che una persona può vivere nella propria vita, è la fiducia altrui: quando qualcuno ti immagina capace di qualcosa che nemmeno tu pensi sia possibile. Aggiungo un pezzo, in coda: qualcuno ti immagina, e tu - anche se magari con un filo di diffidenza - credi a quell’immagine che ti è stata donata e ti butti, vai, parti, ti metti alla prova, in discussione.
A volte può capitare che una persona con disabilità - o anche “solo” con un limite molto forte - non si immagini proprio: non è che non si riesca a fare quella determinata cosa, proprio non la si prova neanche, convinti come siamo di non essere capaci, adeguati, idonei. La fiducia è l’elemento trasformativo: qualcuno a volte crede in noi ancora di più rispetto a quanto non facciamo noi stessi.
Se non immaginarsi proprio disegna una realtà che sta un po’ nel mezzo, ai due estremi troviamo chi si immagina eccome capace di far qualcosa, e allora si proietta e non ha bisogno di niente e nessuno, e chi si immagina - eccome - ma estremamente inadeguato. Anche in quel caso ci si proietta, tantissimo, solo che lo si fa nel senso sbagliato, dalla parte più lontana dalla concreta possibilità di ottenere un risultato. O meglio, di ottenere un risultato positivo.
È un po’ come dire: che tu creda di farcela o meno, avrai sempre e comunque ragione.
Negli affetti, quando si vive in presenza di un limite fisico di cui si è consapevoli, a volte ci si ritrova in questa parte della storia. Ed è di questo che oggi desidero parlarvi: la paura di restare soli. Per sempre.
Nel corso della mia esistenza ho spesso pensato che essere nato senza una gamba fosse la fonte di ogni malessere, la causa di qualsiasi insuccesso. Nelle relazioni, l’assenza di un arto, la mia diversità mi procurava vergogna e imbarazzo: questo mio essere in difetto, vedendo la diversità con una sorta di segno meno davanti, veniva da me proiettata automaticamente negli altri. Davo per scontato che quel disvalore, quella sfortuna, quell’elemento antiestetico sconfinasse nella mente altrui: tutti dovevano per forza pensarla come me, tutti dovevano di fatto essere consci del fatto che non solo io mi vergognavo della mia gamba, ma che sarebbe stato fonte di vergogna anche il fatto di stare con qualcuno con quel tipo di disabilità.
È proprio questa errata convinzione, problema-centrica, a rappresentare il nostro primo handicap: a volte ci fossilizziamo sui nostri pensieri al punto che diventa naturale immaginare che chiunque altro possa pensarla come noi. Questo diventa il vero limite, perché in quella condizione mentale non c’è spazio per un piano B, figuriamoci per un piano C. Se non mi piaccio, non piaccio. Se non ti piaccio, non mi piaccio. Quindi sono solo e resterò solo. Peggio: è giusto così! Chi mai, d’altronde, potrebbe stare con uno come me? Guardami! Ma ti pare?
Ecco, questo è esattamente quello che proviamo quando siamo convinti che il nostro limite sia visto come tale da chiunque altro, quando non diamo agli altri la possibilità di vederci anche in un altro modo ma soprattutto, quando quella possibilità non la diamo in primis a noi stessi.
Dare alle cose il giusto peso significa essere obiettivi. Da un punto puramente estetico, un elemento - estetico, appunto - che si discosta dallo standard ideale, restringerà il campo delle persone a cui potrò effettivamente affiancarmi. Lo restringerà proprio verso quelle persone che hanno quello standard come unico elemento di reale interesse nella valutazione di un essere umano. È vero, a restare a galla - giocando su questo concetto - è forse una minoranza, ma una minoranza che sa guardare oltre quell’elemento puramente estetico e che, intravedendo nella persona decine di altre risorse, trasforma idealmente quello stesso elemento fuori-standard in una grande opportunità per se stessi e per il partner.
La paura di restare da soli entra a far parte del nostro quotidiano quando diamo a quel limite un’importanza sproporzionata: siamo complessità, siamo fatti di un milione di cose, di aspetti, di valori, di sensibilità, di elementi fisici e di pensiero. Quello stesso limite, in questo contesto ampio, conta uno, non cento. E contando uno è importante presidiarlo ma anche dargli il peso che merita, cioè uno. Solo così potremo proiettare su di noi l’immagine reale, rifiorendo e mostrandoci per la nostra interezza, così piena, totale, complessiva e gigante, da contenere con tanta leggerezza quel limite, ormai trasformato in qualcosa che è più facile - per non dire alle volte divertente - attraversare. Insieme, non da soli!