
Cos’è la leadership e i diversi “stili”
Capire chi è il leader oggi e come diventarlo in modo consapevole
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Capire chi è il leader oggi e come diventarlo in modo consapevole
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Episodi di Best Boss!
Prima di addentrarci negli stili di leadership, è bene partire dalle parole. Leader è chi guida un gruppo di persone, ma non è detto che basti un contratto o un accordo a voce per conferire questo “titolo”.
In un gruppo di bambini che si incontra ogni giorno al parco, il leader potrebbe essere anche il più piccolo che ha talmente tanta inventiva nel proporre giochi che piacciono ed entusiasmano gli altri da essere ascoltato ogni volta che dice qualcosa. Non è un capo “designato” a priori, ma è una persona, bambino in questo caso, che sa farsi rispettare per quello che fa.
Lo stesso esempio si può fare anche in un team che lavora su un progetto, guidato da un project manager. Il leader potrebbe essere anche chi ha grandi capacità tecniche e riesce di volta in volta a risolvere i problemi senza farsi prendere dal panico dando istruzioni concrete ai colleghi.
Pertanto, in un team possono coesistere un coordinatore non riconosciuto come leader e chi invece lo è anche se non è responsabile del team. Questo può avvenire in serenità, ma possono esserci anche degli screzi. Quel che emerge, comunque, è un aspetto importante della leadership: il fatto che questa sia strettamente legata al campo in cui si esplica.
Si è leader in un determinato contesto, in un determinato settore, non per forza in tutto. Cosa significa? Che il bambino di prima potrebbe in classe avere un atteggiamento completamente diverso: parlare poco e solo se interrogato. O ancora il professionista con capacità tecniche, magari si trova completamente spiazzato a spiegare il suo lavoro durante un discorso in pubblico.
Va da sé, a seguito di quanto abbiamo detto, che c'è una profonda differenza tra il leader e il capo. Se leader è chi ha dei seguaci, ossia persone che condividono le decisioni che questo prende e le accettano positivamente, il capo è chi in teoria dovrebbe guidare delle persone ma non è detto che venga seguito o che il suo pensiero e il modus operandi siano davvero accettati da tutti.
E questo può comportare che chi lavora per lui faccia qualcosa perché deve farlo, magari di malumore e senza approvarlo davvero. Non si sente dunque davvero ingaggiato, entusiasmato, convinto. Pertanto esegue quello che gli viene detto perché deve, ma realmente non lo segue.
Sembra una differenza labile eppure è alla base del concetto di leadership. Per prendere in prestito una frase pronunciata da Teddy Roosevelt, 26esimo presidente degli Stati Uniti: “Ci si chiede qual è la differenza tra un leader e un capo: il leader guida, il capo dirige”.
Peraltro, un equilibrio simile che è per forza di cose precario, a lungo andare può portare a una degenerazione dei rapporti e intaccare la cosiddetta employee retention ossia la capacità di trattenere i talenti da parte di un’azienda. Chi vale, difficilmente, subisce le decisioni di un capo che non è un leader.
Un tema che ha così tanta importanza da essere centrale nel libro “Why Do So many incompetent men become leaders?” di Tomaso Chamorro-Prezumic che dà consigli su come riconoscere un pessimo leader e diventare a propria volta migliore, partendo dal presupposto che non è solo una percezione quella di essere guidati da persone incompetenti ma avviene sempre più nella realtà. E se il testo punta sulle caratteristiche che portano così tanti uomini che non valgono a ricoprire posizioni di un certo livello, di contro quali sono le caratteristiche che un buon leader dovrebbe avere?
In primo luogo un leader deve avere una visione, un fine da raggiungere ed essere in grado di ispirare gli altri a collaborare, a superare gli ostacoli e a continuare a crederci. Lo spiega molto bene il libro “Purposeful” scritto da Jennifer Dulski che punta in particolare sul concetto di movimento legato alla leadership. Così facendo, infatti, dice l’autrice, si può dare al lavoro un movimento, con sostenitori appassionati e raggiungere l’obiettivo che ci si è prefissati.
Ovviamente è fondamentale che la visione venga condivisa, non solo all’inizio del movimento ma costantemente. E condivisa non vuol dire “appiccicata” alle persone a forza, ma essere riconosciuta come tale quindi considerata come propria.
Oltre all’avere una visione, è fondamentale avere carisma che, come si può leggere in un altro testo, dal titolo “Il segreto del carisma” di Olivia Fox Cabane, non è una caratteristica innata, ma è uno strumento che può essere appreso.
Sicuramente essere carismatico è fondamentale per un leader, ma non come lo si intende spesso, ossia l’avere un ascendente sugli altri grazie al proprio modo di fare, di vestirsi, di porsi. Il carisma di cui parliamo è legato ad altri due aspetti importanti: la presenza e il calore.
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La presenza non è solo una caratteristica fisica, ma soprattutto mentale. Per presenza si intende il fatto di esserci, ed esserci davvero. In un mondo in cui siamo tutti distratti, un leader presente è chi ha appreso l’importanza di restare concentrato, di prestare attenzione a quello che gli si dice, a come glielo si dice e ai non detti. Solo da lì può partire il concetto di guidare un team e non di dirigerlo.
Ecco perché un leader dovrebbe essere tutt’altro che narcisista ossia solo orientato a se stesso e ai traguardi che vuole raggiungere e ha raggiunto e ambire a molto di più dell’essere amato e rispettato dagli altri. Deve puntare a essere presente, non tanto a se stesso, ma a chi ha di fronte.
Legato a quanto detto c’è il concetto di calore, una caratteristica che si nota subito in un leader, nel modo di parlare, di porsi verso gli altri e anche di posare lo sguardo.
Quel calore umano che magari manca a molti manager che non trovano tempo per le persone e quando lo trovano si nascondono dietro la scusa di essere così impegnati da dover far dire tutto quello che devono in pochi minuti.
Calore e accoglienza invece sono fondamentali anche perché “restano”. Ed è per questo che un altro aspetto, spesso trascurato, ma intimamente legato a quanto detto sopra, è quello dell’intelligenza emotiva. A parlarne per primi furono Peter Salovey e John D. Mayer in un articolo dal titolo “Emotional Intelligence” e poi ci fu il più noto Daniel Goleman con il libro tradotto in Italia "Intelligenza emotiva: che cos'è e perché può renderci felici".
Saper riconoscere le emozioni per guidare i propri pensieri e azioni diventa determinante per un leader ed è possibile solo se, come dice Luca Mazzucchelli nel libro “L’era del cuore”, ci mettiamo in ascolto, lasciamo parlare gli altri per primi, capiamo quali sono i loro bisogni e solo dopo avanziamo le nostre idee.
Un leader intelligente emotivamente fa questo e sa bene che per proporre un’idea, una direzione da seguire, deve capire quali sono quelle che ci sono già.
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L'era del cuore
Questo modo di essere leader prevede che le decisioni non vengano prese da una sola persona, ma che siano frutto della partecipazione di ogni membro del team. Certo, l’ultima parola ovviamente spetta al leader che è colui che sintetizza quanto è stato detto, lo finalizza e lo evidenzia a tutti gli altri, ma quello che è stato deciso è frutto, in egual misura, di tutti coloro che sono presenti.
Si prova infatti a far sì che la decisione non sia presa solo nelle cosiddette “stanze dei bottoni” e solo successivamente mostrata agli altri, ma sia condivisa nel momento in cui viene presa. E questo perché è frutto del contributo di tutti.
È un tipo di leadership che può risultare molto efficace per far crescere le persone che si abituano non solo a dire la propria opinione, ma ad avere un livello di autorevolezza anche quando non sono in posizioni apicali. Il che può servire loro quando e se lo conquisteranno.
Due modi pratici di esplicare questa leadership? Presentare durante una riunione organizzativa alcune decisioni possibili e aprire le discussioni su ognuna, invitando a proporre altre collaterali. O ancora aprire le decisioni a delle votazioni in cui ognuno spiega perché vota in quel modo.
Come si può intuire, ci sono anche dei lati negativi: prendere decisioni in questo modo può portare via molto tempo e può anche creare discussioni che possono portare fuori tema. Ecco perché conta molto l’affiatamento, ma anche la capacità del leader di sapere comunicare e riportare tutti sulla giusta direzione.
È quello stile con cui in effetti tutti abbiamo avuto a che fare almeno una volta nella vita, se non di più. È quando c’è una persona, il leader appunto che può in questo caso coincidere con il capo, che prende decisioni da sé (da qui “autocratica”) senza consultarsi né ricevere input dagli altri. Si sente autorizzato - o potremmo dire investito? - a farlo dal suo ruolo e si aspetta che dipendenti e collaboratori eseguano quanto è stato deciso.
È una leadership tipica, a volte, di aziende padronali dove la proprietà è nei componenti della stessa famiglia ed è una leadership che a lungo andare non funziona anche perché può inficiare non solo il lavoro ma anche la vita delle persone.
Qualche esempio? L’imposizione degli straordinari senza avere spiegato il motivo o aver condiviso gli obiettivi di un’azione simile così come il cambio di turno, gli spostamenti di uffici e così via. Come si può intuire, si tratta di un approccio molto autoritario e quello che viene detto e deciso è quasi un dogma, ossia un pensiero cui non si ammettono repliche. Questo stile può funzionare in situazioni di grande emergenza quando c’è bisogno di comportamenti simili, ma in generale nel mondo attuale non è da portare avanti.
Se hai qualche reminiscenza di francese, ti sarà subito chiaro di cosa parliamo. La leadership del “lasciateli fare” è quando il leader decide di fare in modo che i propri dipendenti si comportino in modo del tutto autonomo riponendo così in loro una totale fiducia per quanto riguarda la gestione delle attività, dei clienti, dei progetti. Il leader, invece, si occuperà del funzionamento generale della sua azienda.
È un tipo di leadership efficace? Dipende innanzitutto dal contesto. Nel mondo delle start-up può funzionare il fatto di far decidere alle persone come organizzare il lavoro, gli orari, la gestione delle scadenze, anzi potrebbe essere il modo più adatto per far emergere le doti di ognuno e far crescere l’azienda neonata.
Ma a lungo andare questo può essere un boomerang, anche per la stessa startup che potrebbe perdere di vista l’obiettivo non avendo una chiara direzione da seguire così come in situazioni più critiche, potrebbe essere necessaria una leadership di tipo diverso. Inoltre, questo modus operandi, può stancare gli stessi dipendenti che possono mostrare frustrazione e scarsa soddisfazione: magari sono attivi, impegnati ma non davvero così produttivi e possono avere bisogno di una guida che partecipi in maniera molto più attiva.
Inoltre, se ogni persona - che deve comunque essere capace, esperta e motivata - ragiona in modo indipendente questo non crea coesione nei gruppi e a lungo andare non aiuta l’azienda a crescere davvero.
Anche qui l’aggettivo ci aiuta a capire di che stile di leadership stiamo parlando: è quel modo di guidare che trasforma e migliora di continuo le convinzioni di un’azienda. È trasformativa perché mira a dare a dipendenti e collaboratori una serie di compiti e obiettivi da raggiungersi, ma li invita ad andare oltre il completamento delle attività e a uscire dalla propria comfort zone.
Da un lato dunque c’è il leader che guida e fornisce una serie di obiettivi, dall’altro ci sono dipendenti continuamente stimolati a fare di meglio, ma soprattutto diversamente. Le persone si sentono altamente ingaggiate ed elettrizzate dalla possibilità di spingersi oltre, ma a lungo andare questo può anche generare stress specie perché non tutti sono uguali e soprattutto non tutti hanno lo stesso atteggiamento nei confronti delle sfide. Questa spinta continua sì, migliora le persone, ma può essere stressante per alcuni, specie se non vengono seguiti singolarmente o inseriti in un percorso di coaching.
Un altro stile di leadership è quella definita “strategica” e, come si può immaginare, è un modo di guidare le persone che si basa molto sulla strategia, sul metterla in pratica e aggiustare il tiro quando ci si accorge che quello che si era pensato non sta portando nella direzione prevista.
Uno stratega, analizzando i dati in suo possesso, ma anche facendo delle previsioni, per cercare di avere risultati concreti, riesce a coinvolgere gli altri e mostrare loro dove si vuole andare.
È pertanto una persona che sa interpretare le informazioni in suo possesso, usarle per definire un modus operandi e lo fa condividendo gli obiettivi con le “sue” persone.
È uno stile di leadership molto comune. Un leader di questo genere deve avere delle conoscenze molto approfondite del suo settore, deve avere un profondo intuito e deve anche essere abile a comunicare. Deve inoltre avere consapevolezza di quelle che sono le risorse a disposizione, sia economiche, che in termini di competenze. Ecco perché una leadership di questo tipo ha come contro il fatto che si possa mettere in atto una strategia che non funziona e farlo anche diverse volte, rischiando così di rovinare quanto fatto in precedenza e portare al fallimento l’azienda.
Questo è uno stile di leadership che si basa sulla parola transazione. Ossia che, come dice il terzo principio della dinamica, prevede che a un’azione corrisponda una reazione uguale e contraria. Vale a dire che i leader transazionali premiano i loro dipendenti per il lavoro che svolgono.
Per fare un esempio: se un team di marketing riesce a far iscrivere alla newsletter dell’azienda un tot di persone previsto entro il trimestre, riceve un bonus. Così come si può premiare una rete di venditori per essere riuscita a coinvolgere dei negozi in un territorio particolarmente difficile e così via.
Come si capisce, è una leadership che si basa molto su un programma di incentivi che sono chiari ai dipendenti delle varie aree. Da un lato sembra un tipo di leadership che funziona e molto concreta oltre che molto sfidante, ma ovviamente tutto dipende dall’obiettivo. Inoltre, bisogna considerare il rovescio della medaglia: se un lavoratore agisce solo per raggiungere quella meta, sarà sì focalizzato, ma non allenerà il pensiero laterale, non uscirà dalla sua zona di comfort a meno che l’obiettivo non sia completamente nuovo e apparentemente al di sopra delle possibilità. Ma se non dovesse ottenerlo, questo potrebbe diventare molto frustrante. E ancora: puntare tutto su qualcosa da raggiungere senza prestare attenzione al percorso, al modo in cui si lavora e tutto il resto, può essere controproducente.
Della figura del coach si parla tantissimo e, se hai mai giocato in una qualsiasi squadra, sai bene come un buon allenatore è qualcuno che conosce bene i suoi giocatori, sapendo di tutti i punti di forza e debolezza. Ecco perché lavora in modo che ognuno possa crescere individualmente, ma farlo insieme agli altri.
Trasportando tutto nel mondo delle organizzazioni, possiamo dire che un leader del genere, come un coach appunto, pone delle domande anziché dare delle risposte preconfezionate, supporta i suoi dipendenti e li aiuta a migliorarsi facendoli riflettere. Facilita la loro crescita perché non suggerisce loro la direzione da seguire, ma fa sì che, guidandoli, ci arrivino da soli.
Come si può intuire, è quindi diversa dalla leadership strategica e da quella democratica perché dà molto più spazio alla crescita delle persone. È uno stile che funziona molto anche perché permette di creare dei team in base alle diverse competenze, ma anche alle diverse caratteristiche oltre a consentire a tutti di acquisire delle skill, in particolare soft, che magari non pensavano di avere. L’unico neo è che a volte le persone che crescono così tanto, possono anche decidere di andarsene per provare altro.
Se pensi che abbia a che fare con la tanto odiata burocrazia, ci sei andato vicino. Si tratta di uno stile di leadership che mette in atto cosa dicono i libri, le regole e quello che hanno già fatto gli altri perché “si è sempre agito così”.
Un leader simile non ascolta, non valorizza le diversità, non agevola la crescita delle persone, non fa crescere i team e non favorisce l’innovazione. È di solito una persona che non ha voglia di osare e si basa su schemi precostituiti che magari hanno funzionato bene. E forse è una persona insicura. Inoltre, agendo così, tende a mettere una distanza tra quello che è il suo modo di fare e le proposte che potrebbero “venire dal basso”. A lungo andare non funziona molto o meglio non funziona molto in un mondo come quello attuale in cui le certezze sono davvero poche.
È un tipo di leadership in cui il leader si comporta come un “host” ossia come un padrone di casa che invita delle persone a cena. Una persona che dunque pianifica, invita, presenta, offre del cibo, offre ospitalità.
Allo stesso tempo, dà delle direttive - visto che si è a casa sua - ma lascia anche agli ospiti la libertà di sentirsi a proprio agio, di andare in camera a posare i cappotti, di portare i bicchieri in tavola e così via.
Stabilisce dunque connessioni tra chi non si conosce, favorisce i gruppi, dispone la propria sala in modo che le persone si sentano a proprio agio e così via. Non è autoritario, ma disegna il perimetro entro cui le persone si muovono, dando loro modo di cambiare quello che c’è dentro: la disposizione delle sedie per esempio. E lo fa guardando come sta andando e se le persone si trovano in una situazione confortevole. Non attira le luci della ribalta su di sé, ma interviene se è il caso perché si sta facendo troppo rumore e i vicini potrebbero spazientirsi. Sa quando deve farlo e quando deve lasciare fare. È una persona consapevole, che sa agire con tempismo e allo stesso tempo conosce bene le sue persone.
Questo è uno stile di leadership flessibile e che si può adattare bene al contesto che stiamo vivendo purché appunto il leader si comporti da perfetto padrone di casa.
Per concludere, il nostro lungo discorso sulla leadership, possiamo dire che uno stile non è “scolpito nella pietra” ma che si possono assumere modalità diverse, quel che conta è avere in mente quali possono essere gli effetti negativi e conoscere davvero bene le persone che si sta guidando. E non dimenticare un altro aspetto fondamentale: conoscere il proprio scopo ed essere in sintonia con esso, come ricorda Nick Craig nel suo libro “Leading from Purpose”. Solo così possiamo esserlo anche con gli altri quando occupiamo posizioni gerarchiche. Anzi, soprattutto in quei casi.
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