Raccontarsi al meglio quando si cerca un lavoro
Perché e come evitare formule stereotipate puntando sulla capacità di emozionare
16min
Perché e come evitare formule stereotipate puntando sulla capacità di emozionare
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Episodi di Non è mai troppo tardi
Un’unicità che è sempre più necessario far vedere ma non perché si vuole scimmiottare l’effetto influencer con stories su Instagram dell’ultimo party a cui siamo andati o dell'abito che stiamo indossando, ma che mira a far vedere in cosa ci distinguiamo dagli altri. Senza mai dimenticare, poi, di essere autentici, veri, reali.
D’altra parte, raccontare se stessi e farlo al meglio è necessario in un mondo del lavoro che è molto diverso da quello che era anni fa.Prova a fare un giro online: sì, il periodo è quello che è, ma la richiesta di personale è ancora piuttosto alta e quando un’azienda si trova in un momento in cui non sta cercando nessuno, non vuol dire che non debba, non voglia, non possa comunicare.
Tenere alta l’attenzione, far capire dove si sta andando, intessere relazioni, monitorare profili che potrebbero essere interessanti in futuro o tenere d’occhio professionisti a cui chiedere una consulenza limitata nel tempo o richiederne la presenza a un evento, sul proprio blog come guest blogger ecc… sono tutte azioni che le organizzazioni che puntano sul corporate branding non dovrebbero tralasciare mai.
E questo, anche se sembra non avere a che fare direttamente con il mondo del lavoro, in realtà non è così. E in una pletora di contenuti di aziende ma anche da parte di professionisti, cercare di distinguersi diventa dunque importante. Lo diventa sia per chi sta cercando un nuovo impiego da dipendente che per chi, da libero professionista, cerca delle collaborazioni così per chi vuole cambiare il proprio impiego e si sta guardando intorno.
Raccontare se stessi, come dice la business writer Annamaria Anelli in una serie di podcast pubblicati su Storytel dal titolo “Le parole per farlo” diventa una vera e propria competenza, sì, forse una soft skill, ma non pensate: è anche “hard” ossia è una competenza che richiede anche una certa “tecnica” di cui parleremo tra poco.
Continuando sulla scia del cambiamento del mondo del lavoro, questa trasformazione coinvolge strettamente anche il mondo del recruitment. L’HR non è più quello di un tempo: ha adesso anche competenze di marketing, di comunicazione e sa benissimo quanto lo scegliere determinate persone non conta solo in termini di occupare una vacancy (un posto), ma diventa strategico a livello di business.
La persona giusta è infatti quella che ben si adatta alla cultura aziendale, che ne sposa i valori o quantomeno li rispetta, è quella che può fare la differenza. Un recruiter che lavora bene è una persona che sa guardare oltre il ruolo che il candidato ha occupato finora e che sa bene, o quantomeno dovrebbe presupporre, che a volte si accettano e si fanno lavori per cui non si è convinti, pertanto in un colloquio sviluppa, citando ancora Socrate, le doti della maieutica che portano a fare uscire queste caratteristiche.
Eh già, ma al colloquio - se cerchiamo lavoro come dipendenti - o al primo incontro conoscitivo - se siamo liberi professionisti e incontriamo un nuovo cliente - dobbiamo in qualche modo arrivarci. In tutte le fasi che precedono l’appuntamento fisico in cui il raccontare se stessi conta ovviamente tantissimo, dobbiamo considerare di dover già evidenziare e la nostra diversità e di doverlo fare spesso attraverso la “freddezza” di una tastiera o meglio di uno schermo.
Ecco perché sarebbe bene anche “Imparare l’ottimismo”, che è poi il titolo del libro di Martin E. P. Seligman che consiglia di rivedere il classico concetto di successo. L’assunto convenzionale - ossia riconosciuto dai più - è che il successo sia dato da una combinazione di talento e desiderio e che il fallimento sia spiegabile con la mancanza di uno di questi.
Dobbiamo ricordare invece che non sempre il fallimento è determinato da questi fattori, ma che su esso, secondo l’autore, manca l’ottimismo che dovrebbe essere una caratteristica essenziale.
Quell’ottimismo che ci dovrebbe mostrare come un mondo del lavoro così cambiato - in cui la gente prova a conoscerci ancora prima di incontrarci dal vivo (tramite la nostra presenza online e tramite il social recruiting) - è in realtà un mondo in cui ci sono diverse chance. E che diversità dovrebbe essere una parola d’ordine, molto più di quanto dovrebbe esserlo la coerenza intesa come l’adattamento a un modello preesistente, che può essere quello altrui o il sé stessi di qualche anno fa. Anche perché, come diceva Italo Calvino, “Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”. L’ordine o meglio la direzione la diamo noi con il nostro racconto.
Migliorare la propria vita attraverso il pensiero positivo 23 minImparare l'ottimismo
Ecco perché più che puntare sull’avere, vale a dire avere competenze tecniche, avere esperienze, avere anni in quell’azienda ecc… dovremmo puntare sull’essere. Ossia come siamo noi rispetto alle cose che abbiamo.
Prendi due tecnici informatici che lavorano nella stessa azienda da 5 anni e che ci sono arrivati dopo avere frequentato lo stesso corso, passando magari da uno stage. Magari non hanno la stessa età, ma una differenza di qualche anno, di primo acchito però potrebbero sembrare totalmente uguali. Stesso percorso, stessa azienda, stesso lavoro e invece no.
Ecco a cosa serve la narrazione di sé: a non puntare sul cosa si fa, ma al come si fa qualcosa e soprattutto al perché si fa qualcosa. Avere chiari i propri obiettivi, la propria motivazione è un importante punto di partenza come ricorda Simon Sinek nel suo libro “Start with why”.
Come essere un grande leader attraverso la comunicazione 23 minStart With Why
Fin qui tutto chiaro, ma come partire in maniera concreta? Ossia come funziona? Per fare una domanda che spesso farebbe anche un bambino. Una domanda importante, anzi cruciale.
La risposta consiste nell'iniziare con l’analizzare, ma per davvero, se stessi. Pensaci un attimo: ogni volta che mandi una lettera di presentazione, un cv, scrivi una bio, ti concentri sull’elenco di cose di cui ti sei occupato. Dirai: “È una bio quindi è ovvio” e invece no. Le cose che facciamo ci devono essere ma prima è importante fermarsi a riflettere per capire chi siamo davvero. Anche perché se guardiamo solo a cosa abbiamo fatto, succede quello che Rob Moore dice nel libro “I Am Worth More”, ossia che applichiamo dei significati agli eventi della nostra vita che molto spesso danneggiano la nostra percezione di noi stessi e anche l’autostima. O di contro rischiamo di sentirci “fighi” solo per le cose che abbiamo fatto.
Comprendi il tuo valore e sblocca il tuo potenziale 18 minI Am Worth More
Il primo passo, dunque, è togliere tutto questo e mettersi in ascolto di chi si è per davvero. Come? Bisogna scavare dentro, su chi si è in questo momento della vita, ma anche su chi si è stato, su cosa si vuole, possibilmente creando anche delle immagini che supportino successivamente la propria narrazione.
I modi per farlo possono essere i più disparati, il nostro consiglio è di usare uno strumento tipico del marketing, l’analisi SWOT, e focalizzarti in questa fase sui punti di forza e debolezza che ti contraddistinguono.
Cerca però di evitare quelli oggettivi, come la capacità di scrittura, la conoscenza dell’inglese e del tedesco, la conoscenza di un programma di software, quelli sono importanti, ma arrivano dopo.
In questa fase concentrati sulle tue soft skills che sono quelle che devono guidare il tuo racconto, l’empatia, la capacità di ascoltare, la pazienza, la comprensione, la voglia di analizzare, studiare, il non fermarti fino a che hai raggiunto l’obiettivo, il sapere quando invece arrendersi.
Sì, in questa fase elencale, ma come dicevamo sopra fai uno sforzo in più: immaginale. Cosa signifca? Che puoi e devi visualizzarle magari con dei colori, delle figure, ma che il massimo sarebbe se riuscissi a pensare a delle situazioni o meglio a te stesso in determinate situazioni. Questo ti aiuterà nel momento in cui dovrai raccontare te stesso davanti a un recruiter.
Poi pensa ai valori in cui credi e che ti contraddistinguono: eh già! I valori non contano solo per le aziende ma anche e soprattutto per gli individui. Una volta che tutto questo è chiaro, focalizzati sulle esperienze che hai condotto. Sì, è arrivato il momento. Se avrai proceduto in questo modo, potrai poi concentrarti sui fatti.
Ecco perché la narrazione di sé non coincide solo con il personal branding anche perché come dicono Federico Batini e Andrea Fontana, autori di Storytelling Kit:10 “La narrazione è un processo cognitivo attraverso il quale strutturiamo in unità temporalmente significative, unità di esperienza attribuendo loro un ordine e dei rapporti”.
Un processo cognitivo, di conoscenza dunque, il branding arriva immediatamente dopo. Lo storytelling presuppone anche una sorta di schema narrativo in cui ci sono sempre un eroe, un'impresa, un avversario, un conflitto, un tesoro, un trauma, degli oggetti magici aiutanti e il vissero felici e contenti di ogni favola.
Diciamo che questo può guidarti nella narrazione, ma che puoi essere libero di raccontarti come meglio credi, quel che conta è che non perdi il fil rouge che lega tutto che, come dicevamo, sei tu e come hai deciso di fare le cose, come lo fai. Un cliente non compra da un professionista solo il suo lavoro, compra il come lo fa, quel modo che può far sì che la sua azienda sia unica. Certo, ci sono caratteristiche comuni a tutti i professionisti che fanno un determinato lavoro, ma ci sono poi le differenze.
Se questo ti è chiaro, sei pronto per fare personal branding, ossia per “trasformare” te stesso in un brand. Inutile pensare prima questo e dopo alla narrazione di sé. Altrimenti rischiamo tutti di comunicare come gli influencer.
Questo è il motivo per cui la narrazione di se stessi non andrebbe affidata a nessun altro. Possiamo farci correggere i testi, farceli rieditare in ottica SEO, se non siamo per esempio bravi a scrivere online, ma la prima stesura deve partire da noi, anche se non abbiamo tempo. Questo compito non deve essere delegato.
E quali sono gli strumenti attraverso cui esplicare questa nostra narrazione di noi stessi? Nell’ambito lavorativo possono essere la lettera di presentazione, il curriculum stesso, il summary di LinkedIn, ma anche l’headline, la bio di Twitter, le stories e la bio su Instagram, il sito personale nella pagina chi siamo.
Sono tutti luoghi in cui dovremmo raccontarci al meglio, ecco perché bisogna avere chiari gli obiettivi. Perché stiamo utilizzando quel canale, a chi stiamo parlando?
Se questo ci è evidente, tutto può poi procedere per il meglio a partire dal momento della candidatura.
È vero: quando ci si candida per un profilo, spesso si riempie lo spazio vacante di un form già precompilato dove lo spazio per la lettera di presentazione magari non dà adito a chissà quali grandi racconti, ma il contenitore conta fino a un certo punto. Conta in primis che nel presentarsi lo si faccia in maniera diversa per ogni azienda/lavoro.
Ecco perché bisogna evitare di “mandare cv a pioggia”, ma piuttosto farlo per 4-5 (massimo 10) posizioni al massimo a giornata. Per non arrivare spremuti e per personalizzare ogni occasione di contatto, quello che nel mondo del customer care si chiamerebbe touch point. La lettera di presentazione, anche quando è l'email che accompagna un curriculum in allegato, deve essere diversa da tutte le altre e da quelle di tutti gli altri.
No al linguaggio che si sta diffondendo sempre più nel mondo del lavoro e che prevede delle formule fortemente stereotipate. Qualche esempio: “ho sviluppato un’esperienza nel settore” o “ho doti di collaborazione” o ancora “sono una persona proattiva, organizzata, efficiente” o ancora “penso che potrei apportare alla vostra azienda la mia esperienza quinquennale”...
Espressioni a prova di sbadiglio o di narcolessia improvvisa. E un recruiter, se si trova centinaia di e-mail con formule di questo tipo, non ti noterà di certo. Bisogna puntare sul creare relazioni, sull’attrarre le persone, sul creare quasi uno shock se necessario o quantomeno sul farle immedesimare, magari mettendo in primo luogo i propri valori, le proprie emozioni.
Piuttosto che dire “Ho iniziato nella pubblicità con uno stage nell’azienda x che mi ha permesso di acquisire competenze y” meglio dire “La prima pubblicità che ricordo è quella x in cui, pur se piccolo, mi sono fermato davanti al televisore. Ero attratto dalla musica, dai colori, dal tono della voce anche se non capivo davvero cosa stesse dicendo. Non lo capivo, ma come mi faceva sentire quello spot, come mi faceva tralasciare qualunque cosa stessi facendo è una sensazione che non ho più dimenticato. Ho iniziato in questo mondo proprio per ricreare quella sensazione, emozionarmi ed emozionare come allora”.
Sì, sono molte più parole, ma così facendo hai catturato l’attenzione di chi ti legge. Hai costruito un mondo, hai creato un’immagine, un inizio di relazione perché se chi è dall’altra parte, ha mai provato qualcosa di simile, se lo ricorderà.
Questo vale anche nei microtesti dei social. Pensa all’headline di LinkedIn: tutti mettono i propri ruoli, le proprie esperienze che sì sono importanti, ma quanto potrebbe essere più efficace iniziare con uno slogan, una frase che condensa il nostro approccio al lavoro e poi mettere i titoli?
Tutto questo poi dovrà essere esplicitato nel summary di LinkedIn. Se le persone leggono le prime 3 righe, cattura la loro attenzione dicendo qualcosa che colpisca, emozionando, ripetendo lo slogan dell’headline. Dopodiché se hai esperienze di lavoro diverse, racconta cosa ognuna ti ha insegnato e cosa porti nel tuo lavoro attuale di quanto hai imparato.
Collegale tutte con quel fil rouge che dicevamo all’inizio, non far sì che sia chi ti legge che lo deve trovare. Guidalo nel racconto e possibilmente usa anche le domande internamente.
Ossia inserisci delle domande retoriche che fanno sì che poi le persone continuino a leggere, proprio nel momento in cui pensi si potrebbero porre quel quesito. Domande come “Cosa c’entra un’esperienza come cameriere con il voler lavorare nel digital marketing?”. E poi ovviamente rispondi.
Senza dimenticare poi quando si ha un sito personale, la pagina “chi sono”. Qui spazio alla creatività che all’inizio magari non arriva, ci si può mettere giorni per parlare di se stesso usando il personal storytelling e quanto abbiamo detto.
Quel che conta è non autogiustificarsi dicendo che manca l’ispirazione. Come spiega Peter Hollins in “Think like Da Vinci”, non esiste nessuna musa né nessuna rivelazione. La creatività è un’arte che deve essere coltivata con costanza e dedizione. E aggiungiamo, ancora e di più in questo attuale mondo del lavoro.
Apprendere come padroneggiare il pensiero creativo 15 minThink like Da Vinci
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