Perché falliscono le startup: motivi ed esempi
Non solo mancanza di investimenti, c’entrano anche l’analisi del bisogno, del target e il giusto team.
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Non solo mancanza di investimenti, c’entrano anche l’analisi del bisogno, del target e il giusto team.
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Episodi di Exit: toolbox per startup
Su cosa sia una startup a volte ci sono pareri discordanti, anche se in linea di massima tutti sono concordi con la definizione che ne dà Steve Blank, imprenditore di stanza nella Silicon Valley, che la definisce “un’organizzazione temporanea che ha la scopo di cercare e validare un business model scalabile e ripetibile”
C’è poi chi aggiungerebbe che fino a 3 anni di vita una startup può considerarsi tale e che, superato questo lasso di tempo, non sia più in fase di “start”. Così come c’è chi potrebbe obiettare che, nonostante la sua azienda sia stata costituita da poco, non la considera affatto una startup, ma un’impresa a tutti gli effetti.
Al di là delle varie opinioni discordanti, se guardiamo al mercato italiano la grossa differenza sta tra le startup “tradizionali” e quelle innovative. E stavolta non si tratta di aggettivi che danno adito a discussioni, ma di una definizione a cui fa riferimento il Registro delle Imprese.
Senza entrare troppo nel dettaglio, le startup innovative sono quelle che, oltre a essere iscritte a una sezione speciale del già citato registro, puntano sullo sviluppare, produrre e commercializzare prodotti innovativi, destinare una parte sostanziale dei costi alle attività di ricerca e sviluppo e tanto altro ancora.
In questo articolo, però, più che soffermarci sulle startup che vengono create, puntiamo l’obiettivo verso quelle che sono nate e poco dopo fallite per capire quali sono i motivi dietro la loro rapida discesa. Cosa che succede anche se magari l’idea era di quelle “che spaccavano”, c’era una buona base da cui partire e business angel cui fare riferimento.
Per farlo, iniziamo con i numeri e ci affidiamo al report di CB Insights, azienda con sede a New York che si occupa appunto di analisi di mercato, intelligence e tech, che ci dà un’idea su com’è la situazione riguardo ai fallimenti delle startup.
Secondo questo report che si è basato su 1100 startup americane, seguite dal momento in cui hanno ricevuto il primo round di finanziamento, quasi il 67% di esse si blocca a un certo punto del processo e non riesce né a fare quella che viene definita exit né ad aumentare i finanziamenti per andare avanti. Con exit, lo ricordiamo, si intende la vendita della propria quota a una società più grande.
Non sono poche, dunque, le startup che devono dire addio a tutto e che molto probabilmente lo fanno anche senza grande clamore. Questo perché è sempre più facile focalizzare l’attenzione sui successi anziché sui fallimenti. Dimenticando la grande lezione che viene dagli errori. Non a caso si dice “fail fast, learn fast”. Ossia fallisci pure e velocemente per imparare altrettanto velocemente.
Ma cos’è che determina la caduta di una startup? È dovuta a errori di comunicazione, a budget improvvisati, ad analisi del mercato sbagliata, a team non affiatati? O ad altri fattori?
È lo sbaglio che le startup fanno più spesso: si basano su quanto un’idea possa essere brillante senza capire se intercetta davvero un bisogno condiviso o di cui le persone sono già consapevoli. E se è vero, come si dice nel marketing, che il bisogno in qualche modo si può indurre, è anche vero che una startup non deve assolutamente dimenticare il mercato cui ci si sta riferendo.
Non basta pensare di avere la Soluzione - e la s maiuscola non è un refuso - a un problema, no, quel che conta è che quel problema sia davvero sentito e visto come irrisolvibile pertanto non si sta aspettando altro che arrivi la soluzione. Soffermiamoci un attimo su Airbnb, l’azienda che ha cambiato il modo di concepire i viaggi e soprattutto gli alloggi in viaggio andando a intercettare bisogni diversi da parte di persone differenti e facendole incontrare tra loro in una piattaforma creata ad hoc. Airbnb è partita dall’analizzare l’esigenza di chi aveva tante case ma non le voleva dare in affitto per tempi lunghi né tantomeno lasciare sfitte e di chi, di contro, voleva andare in vacanza ma non poteva permettersi i grandi hotel né voleva stare nei B&B.
E in più voleva vivere le ferie sentendosi a suo agio come se fosse a casa propria. Più bisogni, un’unica soluzione. Se invece il bisogno non c’è, l’idea da sola non basta. In merito a questo è molto interessante quanto riporta sempre CB Insights riguardo ai motivi per cui le startup falliscono facendo riferimento a quanto dichiarato da una di esse: Treehouse Logic.
Nella sua analisi post mortem - quella che cioè viene fatta quanto è troppo tardi per fare qualcosa per salvare un prodotto, servizio ecc.. - si legge infatti che “Le startup falliscono quando non risolvono un problema di mercato” e riguardo al loro caso specifico: “Avevamo un’ottima tecnologica, ottimi dati sul comportamento d’acquisto, ottima reputazione come leader, grande esperienza, ottimi consulenti ecc.. Ma quello che non avevamo era una tecnologia o un modello di business che risolvesse un problema dolente in modo scalabile”. Il problema dolente è proprio quello che tutti o diverse persone hanno e riguardo al quale aspettano che qualcuno lo risolva.
E partendo da quanto dice Guy Kawasaki nel libro “Wise Guy” “abbiamo successo quando realizziamo quello che vogliamo usare”. Pertanto, se non siamo proprio noi gli utilizzatori finali, dobbiamo ragionare e agire per realizzare quello che gli altri vogliono o devono usare per risolvere davvero una situazione in cui si trovano.
Lezioni di vita da Guy Kawasaki per avere successo 18 minWise Guy
Anche questo è spesso un motivo di fallimento per una startup e in generale di qualsiasi progetto imprenditoriale. Bisogna conoscere bene il pubblico cui ci si vuole rivolgere, sapere a menadito quali sono i bisogni - come dicevamo prima - ma anche in che modo vive e pensa. Sapere com’è una giornata tipo, come si muove, che strumenti usa, che aspirazioni ha e quali timori. Come si interfaccia con la tecnologia, che uso ne fa e tanto altro ancora.
Per fare questo è necessario avere più dati possibili a disposizione che possono provenire da ricerche di mercato ad hoc, da social network se si hanno già e riguardano quel determinato segmento di mercato e tanto altro ancora.
Nel marketing, poi, si usa un tool che a volte è criticato, ma a nostro avviso resta sempre molto valido: le buyer personas per identificare quei gruppi di persone, dalle caratteristiche differenti, cui potenzialmente potrebbe essere destinato il nostro prodotto o servizio.
Come dice Peter Thiel, co-fondatore di Paypal in “Da zero a uno”, il primo passo che bisogna compiere è quello di individuare un mercato di nicchia molto specifico.
Perché se si ambisce a diventare l’azienda di riferimento in un mercato molto ampio, si corre il rischio di non riuscire a creare un legame con il proprio pubblico, oltre che quello di iniziare una guerra molto aspra con la concorrenza. Conoscere le persone cui vogliamo cambiare - o quantomeno modificare - la vita è dunque fondamentale.
Molti startupper iniziano senza avere chiaro il proprio modello di business, capire come guadagneranno e a partire da quando. Invece questo deve essere chiaro ancor prima di aprire la partita IVA della propria società. Un business model valido dovrebbe rispondere a questa domanda: quale valore darà in più il mio prodotto o servizio rispetto alla concorrenza?
Sapere dare la risposta giusta vuol dire definire la propria proposta di valore o, per dirla all’inglese, la value proposition. Che non deve mai mancare in un progetto imprenditoriale strategico. Importante per la propria startup ed essenziale per attrarre potenziali investitori.
Un’idea senza un modello di business che la guidi e faccia pensare a come questa potrà generare profitto, resta solo un’idea. Bella, geniale, che esalta gli animi, ma con cui si arriva poco lontano.
Per fare un esempio tanto caro al mondo di oggi: inventare una startup che raccoglie dati diversi da quelli che possono proporre gli altri senza che effettivamente esista un servizio che li possa trasformare rapidamente e convogliarli in informazioni per determinate aziende, è a ogni modo “monca”. E manca di un pezzo fondamentale legato al business.
Avere del denaro iniziale non solo è fondamentale, ma è necessario perché gli investimenti di cui può godere una startup possono essere limitati nel tempo o possono tardare ad arrivare. Iniziare un’attività sperando di partecipare subito a un bando o di conquistare un business angel non è il modo giusto per partire. Pertanto bisogna partire con quella base che ti aiuterà a muoverti nel modo giusto e che va poi “allocata” con giudizio. Prima di partire con il business bisogna capire qual è la base di partenza ma anche come spendere quei soldi di partenza.
Non individuare il giusto mercato per il proprio prodotto ed esaurire tutti i soldi a disposizione per trovarlo per esempio non è un buon punto di partenza così come essere convinti della propria idea e assumere più personale di quanto in effetti si possa pagare. Sono ragionamenti importanti specie alla luce del fatto che non è detto che il primo round di finanziamento si possa trovare nei tempi giusti per proseguire con il progetto iniziale.
Connesso a questo c’è anche il problema tempo: né questo né i soldi sono infiniti, bisogna dunque tenerne conto.
Anche questo è un errore molto comune ed è legato a quanto detto sopra sulle buyer personas. I prodotti devono essere testati da chi li userà perché per quanto possiamo avere analizzati i bisogni e i desideri, per quanto ci possiamo mettere nei panni del nostro pubblico, non è detto riusciamo a farlo davvero. Ecco perché potrebbe essere utile un approccio lean detto anche di lean startup di cui parla anche Eric Ries nel testo “Partire leggeri”. Che è poi quello usato anche da diverse startup.
In cosa consiste? In un processo di ideazione-verifica-modifica continuo in cui si adatta, in base alle sperimentazioni degli utenti, il prodotto o servizio passo dopo passo alle necessità di chi lo sta usando, ovviamente tenendo sotto controllo i costi. Anche la già citata Airbnb fece così: si accorse che, nonostante la bella idea e il bel servizio messo in piedi, molti degli host avevano un problema con le foto, non erano in grado di farle in modo professionale e questo ovviamente non aiutava. Ecco perché propone a chiunque affitta una stanza o un'abitazione la possibilità di fare foto di alta qualità.
Ignorare gli utenti mentre si costruisce il proprio prodotto o servizio non è solo un errore grossolano ma un vero e proprio boomerang. A volte si è così concentrati sul rispettare le roadmap - ossia i percorsi - che si è stabiliti che si dimentica di testare cosa si sta davvero facendo.
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Altro errore più frequente di quanto si creda: si pensa che basti l’idea e l’obiettivo finale per unire le persone e invece non è così.
Bisogna innanzitutto lavorare sul team building per costruire un gruppo, in particolare quando si tratta di persone che non si conoscono molto o che non hanno mai lavorato insieme. Allo stesso tempo, bisogna garantirsi di avere tutte le competenze che possono servire a una startup.
Avere un team fatto solo da sviluppatori e non avere nessuno che si occupi della comunicazione, per esempio, può essere controproducente così come non considerare da principio chi si debba occupare delle public relation. Ecco perché prima ancora di costruire il team bisognerebbe avere chiaro, per quanto possibile - e la strategia di individuare il mercato di riferimento in questo aiuta - di quali competenze si potrebbe avere bisogno.
Sempre stando a CB Insight, in molte analisi post mortem le startup si lamentano del fatto che avrebbero potuto avere un founder che conoscesse anche l’aspetto commerciale o che mancasse per esempio un CTO, ossia il Chief Technical Officer, vale a dire un direttore tecnico che si occupa di coordinare le risorse che riguardano l’ambito tecnologico e le tecnologie da usare. Un ruolo tutt’altro che trascurabile in una startup.
Costruire un team di talento è dunque fondamentale come ricordano Jim Clifton e Sangeeta Badal nel libro “Born to build” e in particolare bisogna, dopo averlo costruito, identificare i punti di forza e di debolezza della propria squadra. Una volta fatto questo si potranno individuare persone esterne con cui creare partnership che vadano a colmare le lacune del team. Peraltro, i cosiddetti outsiders servono sempre perché hanno un punto di vista diverso e spesso non viziato da quello che succede all’interno della startup e anche perché aggiungono conoscenze, competenze e connessioni. Da non dimenticare poi di identificare nella propria rete personale delle persone che possano fare da ponte verso altre reti e nuove risorse, sia umane che finanziarie.
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Collegato a quanto detto sopra riguardo al team, molte startup spesso tralasciano sia il marketing che la comunicazione e pensano basti solo l’idea a fare il business. E invece, specie quando un prodotto è nuovo, è fondamentale fare delle azioni per attirare il proprio pubblico, intercettare i canali dove si trova e riuscire a instaurare una relazione con esso. Stessa cosa per la comunicazione.
Avere un ufficio stampa e chi si occupa di digital PR può dare un notevole contributo a far conoscere cosa fa la startup non solo ai media, ma anche a vari stakeholder.
Sembra un motivo banale, eppure sempre stando a CB Insight, è qualcosa che succede. Ci sono aziende che iniziano entusiaste per poi accorgersi che non è davvero quello il settore che interessa a founder e co-founder. E questo succede perché magari l’idea brillante è stata messa al centro di tutto, ma poi vengono a mancare competenze, interessi, armonia anche in merito a quanto si vuole davvero costruire. Insomma, manca quella passione che dà chiarezza e indica la direzione ai progetti.
Doughbies, startup che nel 2013 ha raccolto 670.000 dollari per un servizio di consegna di biscotti su richiesta, è fallita a causa della mancanza di interesse da parte dei suoi fondatori e del suo team. L'azienda che sembrava andare molto bene alla fine ha chiuso per un motivo apparentemente banale eppure esistente: il management non era più interessato ed era pronto a passare a qualcosa di nuovo.
Questo significa che il progetto va scelto bene e che la passione è un aspetto tutt’altro che trascurabile così come è importante capire come quel prodotto o quel servizio può declinare i valori in cui si crede.
Quelli elencati sono alcuni dei motivi che possono portare al fallimento. Altri collaterali potrebbero essere l’ignorare i competitor, avere resistenza al cambiamento così come scegliere un momento sbagliato per lanciare il proprio prodotto o servizio. E cosa ha fatto chi invece ha già fallito? In quali errori è incorso?
Adesso prendiamo come esempio 3 startup che sono fallite e di cui forse non ti ricorderai più. Non ci interessa tanto la storia, quanto questa ci possa insegnare per evitare di ripetere gli stessi errori.
Wantful e la mancanza di un business model valido
L’idea era di quelle “geniali”. La startup con sede a San Francisco e New York aveva pensato a un e-commerce personalizzato: Wantful era in grado di consigliare agli utenti il regalo più adatto da fare ai propri cari incrociando informazioni, genere, gusti e preferenze, facendo capo a 600 rivenditori ad hoc.
E su questa idea avevano raccolto diversi sostenitori tanto da chiudere un round da 5,5 milioni di dollari.
Tutto andava così bene, anzi forte troppo bene che la startup non è riuscita a stare dietro al mercato costantemente in crescita. L’e-commerce era cresciuto, idem la startup ma non in modo sufficiente da ottenere gli investimenti necessari per proseguire e fare il vero salto di qualità da far sì che altri partner scommettessero sulla startup.
Cosa ci insegna questa questa storia?
Tanto, innanzitutto che l'idea era buona e il settore sicuramente proficuo e questo è un ottimo punto di partenza, ma che senza pianificare tutte le tappe, senza un business model davvero valido che preveda anche le tempistiche e pensi a una scalabità del prodotto, si va poco lontano.
Homejoy e l’importanza di testare il prodotto
Il nome bellissimo, Homejoy, faceva già presupporre il prodotto: un’azienda specializzata nelle pulizie domestiche che aveva raccolto fin da subito il favore di Google Ventures e del fondatore di PayPal Max Levchin.
In cosa consisteva la piattaforma prodotta dalla startup con sede a San Francisco? Nel fare incontrare online i clienti con i fornitori di servizi domestici, inclusi detergenti per la casa e tutto fare. Il problema non era tanto il servizio, antesignano del più noto Helpling, quanto il fatto che i lavoratori fossero inquadrati come liberi professionisti e che, a causa di una loro class action, un giudice valutò che questo modo di gestire lavoro e lavoratori non fosse corretto e penalizzò il business.
La società era cresciuta tanto, mantenendo i prezzi bassi ma il modo di inquadrare tutto alla fine l’ha portata al fallimento.
Cosa ci insegna questa storia?
Nel business model sono da considerare anche le persone che consentono che la tua startup espleti il servizio, non solo gli utenti finali e il team originario cui si deve l’idea. Bisogna considerare tutti i fattori che concorrono al successo di un prodotto e magari prima fare una prova su piccola scala e poi pensare in grande. Homejoy è cresciuta troppo in fretta senza potere o volere analizzare davvero questo aspetto.
BeMyGuru e il target non analizzato a fondo
Hai mai sentito parlare di BeMyGuru? Nonostante il nome, si trattava di una startup italiana che avrebbe dovuto aiutare le altre a trovare degli esperti per far crescere il loro business. Dei guru, in poche parole. Sulla carta sembrava una startup necessaria che partiva da un bisogno, ma nella realtà, come ha avuto modo di raccontare in seguito il suo fondatore Jegor Levkovskiy, non era proprio così.
O meglio il target non era stato davvero analizzato a fondo. Al momento di entrare in Enlabs, l’acceleratore della Luiss, il fondatore e gli altri si scontrarono con la dura realtà: era vero che le startup avevano bisogno di consulenti, ma non avevano di certo i soldi per pagarli.
Ecco che allora BeMyGuru provò a cambiare destinatario e a puntare sulle PMI, ma anche questo, senza l’analisi corretta, non portò a niente. In teoria le PMI avevano più soldi, in pratica essendo piccole e media imprese tendevano ad andare da consulenti conosciuti o consigliati da persone di cui si fidavano. Inoltre, come ha raccontato il fondatore: le persone del team non si conoscevano benissimo e questo, in momenti di forte stress anziché aiutare a essere più uniti, generava ancora più problemi. Infine, forse l’entrata nell’acceleratore era stata prematura.
Cosa insegna questa storia?
Che Il team, come abbiamo detto, è fondamentale, e se non c’è già coesione e spirito di squadra, alla prima prova crolla. Inoltre, è evidente come BeMyGuru sia incappato nel problema solito delle startup: idea bellissima, partita da un bisogno, ma senza analizzare veramente il target di riferimento, capendo qual era la capacità di spesa. La startup ha poi evitato di sperimentare con gli utenti a cui era rivolto il prodotto in modo da aggiustare il tiro pian piano. Quello che dicevamo a proposito del metodo lean.
di 11