Clima e Carbon Neutrality: le criticità della Cina
L'impegno e le difficoltà degli Stati nella lotta ai cambiamenti climatici
14min
L'impegno e le difficoltà degli Stati nella lotta ai cambiamenti climatici
14min
Episodi di Pianeta soldi
La presa di coscienza nei confronti dei cambiamenti climatici indotti dall'attività dell'uomo non è avvenuta in modo improvviso ma è frutto di un processo durato almeno un paio di decenni. Era il 1979 quando la World Meteorological Organization, un'agenzia delle Nazioni Unite, organizzò a Ginevra la prima World Climate Conference. Si trattò di un incontro tra scienziati di tutto il mondo e fu un'occasione di condivisione e analisi di dati sul clima: ma soprattutto furono gettate le basi per l'avvio della ricerca sui cambiamenti climatici. Non essendo presenti rappresentanti di istituzioni statali, la prima conferenza sul clima si concluse con un semplice appello ai governi a "prevedere e prevenire cambiamenti climatici potenzialmente indotti dall'uomo che potrebbero nuocere al benessere dell'umanità".
Si trattò del primo passo verso la definizione di un percorso per affrontare il problema dei cambiamenti climatici. Il successivo fu la creazione nel 1988 dell'Intergovernmental Panel on Climate Change, un organismo con il quale si iniziò a coinvolgere i governi anche se solo a livello informativo. Il compito dell'IPCC è infatti quello di fornire agli Stati membri rapporti regolari sulle evidenze scientifiche dei cambiamenti climatici, i rischi futuri e le soluzioni per evitarli o mitigarli. Il 1990 è un anno chiave: si tiene la seconda World Climate Conference e l'IPCC pubblica il suo primo rapporto. Da entrambi viene emesso un appello per definire un trattato internazionale sui temi ambientali. Iniziano all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite i negoziati per la Convenzione sui cambiamenti climatici.
Nel 1992 in occasione del Summit della Terra a Rio de Janeiro viene aperta la campagna per la sottoscrizione della Convenzione sui cambiamenti climatici da parte degli Stati membri delle Nazioni Unite, insieme alla Convenzione sulla biodiversità e alla Convenzione per la lotta alla desertificazione. Il 21 marzo 1994 la Convenzione entra in vigore, definendo una strategia per la cooperazione internazionale contro i cambiamenti climatici. La strategia è finalizzata a limitare l'aumento della temperatura media globale.
La Convenzione stabilisce la creazione della COP, Conference of the Parties, l'organo decisionale cui partecipano tutti i Paesi sottoscrittori della Convenzione. La COP ha il compito di controllare i progressi nell'attuazione della Convenzione e prendere le decisioni necessarie a promuoverla. La terza riunione della COP a fine 1997 segna un punto cruciale. Viene infatti approvato il Protocollo di Kyoto, il documento che rende operativa la Convenzione. Il Protocollo prevede infatti impegni e obiettivi concreti da parte degli Stati aderenti nella riduzione delle emissioni di gas serra con l'individuazione di obiettivi differenziati per Paese. Era un accordo molto impegnativo e infatti il processo di ratificazione è stato decisamente complesso, al punto da ritardarne l'entrata in vigore fino al 16 febbraio 2005. Inoltre non tutti i 197 Stati sottoscrittori della Convenzione hanno adottato il protocollo: tra questi gli Stati Uniti che lo hanno firmato nel 1998 ma mai ratificato, per poi uscirne definitivamente nel 2001.
Il protocollo di Kyoto prevedeva per i Paesi sviluppati due cicli con obiettivi di riduzione delle emissioni: il primo dal 2008 al 2012 e il secondo dal 2013 al 2020. Durante il secondo ciclo è arrivato un altro passaggio fondamentale, ovvero l'Accordo di Parigi adottato da 196 Paesi durante la COP numero 21 tenutasi a fine 2015 ed entrata in vigore nel novembre 2016. L'Accordo fissa un obiettivo per l'incremento massimo della temperatura media mondiale nel 21mo secolo: ben al di sotto dei 2 gradi centigradi, ma preferibilmente inferiore a 1,5, rispetto al periodo pre-industriale. Per centrarlo, tutti gli Stati aderenti si sono impegnati a raggiungere il picco globale delle emissioni di gas serra prima possibile al fine di ottenere un mondo "clima-neutrale" entro la metà del secolo. L'Accordo di Parigi opera su cicli quinquennali durante i quali i Paesi devono obbligatoriamente realizzare azioni sempre più ambiziose all'interno di una strategia di lungo termine di riduzione dei gas serra.
La Convenzione, il Protocollo di Kyoto e l'Accordo di Parigi sono caratterizzati da un aspetto importante: la cooperazione tra i Paesi aderenti. È evidente che le economie in via di sviluppo ben difficilmente sarebbero state in grado di sostenere una campagna in grande stile per combattere i cambiamenti climatici. Questo per diversi motivi: economici, tecnologici e culturali. Tutti i passaggi del processo fin qui descritto contengono capitoli dedicati alla soluzione di questo problema. L'Accordo di Parigi ha definito uno schema per fornire supporto finanziario, tecnico e culturale ai Paesi che ne hanno bisogno.
Per quanto riguarda il supporto finanziario l'Accordo ribadisce il concetto secondo cui i Paesi sviluppati debbano prendere l'iniziativa nel fornire assistenza finanziaria agli Stati dotati di minori risorse e più vulnerabili da questo punto di vista. Gli investimenti sono fondamentali per raggiungere l'obiettivo finale attraverso due strade: la prima è la riduzione delle emissioni, la seconda è l'adattamento agli affetti avversi e alle conseguenze del cambiamento climatico. L'Accordo contiene anche un invito agli altri Paesi a contribuire su base volontaria.
La tecnologia è un elemento indispensabile nella lotta contro i cambiamenti climatici: gran parte di questi ultimi sono stati causati dall'utilizzo di apparati, macchinari e infrastrutture che erano stati concepiti senza considerare minimamente gli effetti sull'ambiente. Risulta quindi essenziale fare passi avanti da questo punto di vista sia per invertire la tendenza, sia per rimediare ai danni fatti in passato. L'Accordo di Parigi prevede uno schema di lavoro per lo sviluppo tecnologico in queste due direzioni e per la diffusione dei progressi tra gli aderenti.
Soldi e tecnologia non servono però a molto se alla base non ci sono cultura e capacità di veicolare innovazione e investimenti nella direzione giusta. Per questo motivo l'Accordo di Parigi pone grande enfasi su questo punto e chiede esplicitamente ai Paesi più avanzati di supportare quelli in via di sviluppo nel mettere in atto azioni finalizzate a costruire cultura, capacità e coscienza dell'importanza dei temi ambientali.
Ma quali sono i risultati tangibili della Convenzione e dei successivi passaggi? Al momento un numero sempre crescente di Stati, regioni, città e imprese hanno fissato obiettivi di carbon neutrality. Inoltre, grazie allo sviluppo tecnologico e alla diffusione su vasta scala, soluzioni a zero emissioni stanno diventando economicamente competitive in settori di attività responsabili del 25% delle emissioni, percentuale destinata a salire sopra il 70% entro il 2030: in questo modo esisteranno sempre meno giustificazioni di tipo finanziario per la mancata applicazione di criteri ambientali nell'attività economica.
Al momento attuale la grande maggioranza degli Stati ha fissato l'obiettivo della carbon neutrality al 2050 e introdotto target intermedi sul percorso. Ad esempio l'Unione Europea ha da poco rivisto, rendendolo più stringente il target di riduzione delle emissioni di gas serra al 2030 rispetto al livello del 1990, portandolo dal 40% al 55%. Gli Stati Uniti hanno un obiettivo più ambizioso: nella primavera 2021 il presidente Joe Biden ha fissato come obiettivo 2030 la riduzione del 50-52 per cento delle emissioni di gas serra rispetto ai livelli del 2005, più alti rispetto a quelli del 1990. Ci sono però Paesi che non si sono ancora posti target precisi, come la Russia, l'India, l'Australia. Ma anche altri che si sono impegnati ad anticipare i tempi: la Svezia prevede di raggiungere la carbon neutrality nel 2045, l'Islanda e l'Austria nel 2040, la Finlandia nel 2035. Ci sono anche Paesi che sono ben oltre questi obiettivi. Il Suriname ad esempio ha un bilancio “carbon negative” dal 2014: significa che non solo non emette gas serra ma anzi contribuisce a ridurre quelli presenti nell'atmosfera.
Un caso degno di approfondimento è quello della Cina, ovvero del Paese che emette più gas serra in assoluto. I dati indicano che nel 2019 il gigante asiatico è stato responsabile del 27% delle emissioni globali, staccando nettamente il secondo classificato in questa poco meritoria classifica, ovvero gli Stati Uniti con l'11% delle emissioni. Secondo alcune elaborazioni sui dati macro 2020, anche nell'anno del Covid la Cina ha visto aumentare dell'1,5% le emissioni di gas serra: il calo indotto dai lockdown di inizio anno sarebbe infatti stato più che compensato dal rimbalzo dell'attività economica visto nel secondo semestre.
In base all'Accordo di Parigi la Cina si è impegnata a raggiungere la carbon neutrality entro il 2060 e il picco di emissioni entro il 2030. Il gigante asiatico è sulla giusta strada per centrare questi obiettivi? Dati ufficiali non ce ne sono ma secondo analisti indipendenti la risposta è un "no" deciso. Il sistema di produzione di energia cinese è caratterizzato dalla netta preponderanza del carbone come fonte. Ben il 62% dell'energia elettrica cinese deriva dagli impianti a carbone. Per quanto riguarda le rinnovabili si registra un buon contributo dell'idroelettrico (17%) grazie alla forte accelerazione nel settore registrata a partire dagli anni '80. Purtroppo le altre rinnovabili contano solo per l'11%.
Oltre al pessimo mix di fonti di energia elettrica la Cina è penalizzata anche dalla bassa efficienza degli impianti di produzione di energia. La quantità di fonte primaria, ovvero carbone, petrolio, gas, rinnovabili, necessaria per produrre un punto di PIL è circa 1,7 volte superiore alla media europea e il doppio rispetto ai paesi più virtuosi da questo punto di vista. Le cose vanno anche peggio se prendiamo in considerazione l'intensità emissiva, ovvero la quantità di emissioni gas serra per produrre un punto di PIL: quella della Cina è due volte quella della media europea e 2,3 volte quella dei paesi più virtuosi. Questi dati ci dicono due cose: che il sistema di produzione di energia elettrica della Cina è poco efficiente sia dal punto di vista del puro rendimento sia dal punto di vista dell'impatto ambientale. Si riscontra inoltre una scarsissima presenza di impianti cogenerativi e l'assenza di sistemi di immagazzinamento dell’energia sotto forma di calore.
Il governo cinese è da tempo impegnato nel tentativo di ridurre questi gap con i Paesi più avanzati. Già nell'Undicesimo Piano Quinquennale 2006-2011 venne istituito un doppio sistema di controllo con l'obiettivo di migliorare l'efficienza nel produrre energia elettrica in entrambi i sensi descritti in precedenza. Il piano prevedeva obiettivi differenziati per province, regioni autonome e municipalità su periodo di 5 anni, nell'intento di arrivare entro il 2035 ai livelli dei paesi virtuosi. Purtroppo i risultati non si stanno rivelando pari alle intenzioni, anche a causa delle scarse competenze di dirigenti politici e amministrativi locali.
Ma quali sono i motivi per cui la Cina tarda a mettersi in linea con gli obiettivi climatici? Secondo autorevoli analisti la causa risiede nel modello centralistico di produzione caratterizzato dalla presenza di grandi impianti a carbone sparsi sul territorio e interconnessi da una rete elettrica inefficiente e poco flessibile. Questo modello è poco adatto alla flessibilità che caratterizza le fonti rinnovabili di energia: il sempre maggiore ricorso a queste ultime crea situazioni di attrito che nell'estate 2021 si sono palesate con improvvise interruzioni della fornitura di energia elettrica.
Gli sforzi per incrementare il peso delle fonti rinnovabili nella produzione di energia elettrica stanno mettendo sotto pressione l'intera infrastruttura di trasporto dell'energia elettrica della Cina. A causa della contemporanea e necessaria chiusura di impianti e miniere di carbone, il sistema elettrico è stato sottoposto a uno stress notevole. Si sono quindi verificati distacchi della rete senza preavviso o con preavviso minimo. I distacchi hanno interessato tutto il territorio cinese e la grande maggioranza dei settori industriali, creando anche problemi di sicurezza. Questa situazione sta danneggiando seriamente il processo di avvicinamento agli obiettivi climatici in quanto, per salvaguardare i processi produttivi, alcune aziende hanno deciso di installare gruppi di continuità: questi ultimi sono in genere alimentati da combustibili fossili, gasolio in primis, con conseguenze negative sull'ambiente.
La crisi dei distacchi elettrici è un importante campanello di allarme. Ci dice infatti che la struttura attuale del sistema di produzione e distribuzione dell'energia elettrica della Cina potrebbe non sopportare ulteriori passi in avanti nel settore rinnovabili. Questa situazione sembra in grado di mettere a serio rischio il rispetto degli obiettivi sui gas serra e sulla carbon neutrality del Paese che di gran lunga è il maggior produttore di emissioni. Con effetti negativi sull'intero processo avviato con la Convenzione sui cambiamenti climatici. Purtroppo le cause dei problemi descritti sono strutturali e potranno essere corrette solo con riforme realizzabili in ottica di medio-lungo termine.
di 8