Il capitale: comprenderlo e utilizzarlo al meglio
La base di partenza su cui si fondano le economie moderne
13min
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Episodi di Pianeta soldi
Il capitalismo è il sistema economico in cui i mezzi finanziari necessari ad avviare e gestire un'attività finalizzata a produrre un utile sono di origine privata, ovvero appartengono a un soggetto (una persona fisica o giuridica) non pubblico. Questo soggetto decide quindi in completa autonomia di impiegare il proprio capitale per creare un'impresa e affrontare il libero mercato. In estrema sintesi stiamo descrivendo il sistema capitalistico su cui si basano Stati ed economie occidentali ed è evidente che tale sistema si fonda su tre elementi cardine: strutture politico-statali liberiste, iniziativa privata e capitale.
Ma che cos'è il capitale? Si tratta di un concetto ampio e discusso in quanto è stato oggetto di analisi da parte di molte correnti di studiosi. Secondo gli economisti classici il capitale è il prodotto che non viene consumato ma utilizzato per avviare nuovi processi produttivi. Per altri studiosi è potere di acquisto destinato a investimenti produttivi. Uscendo dalle definizioni accademiche e avvicinandosi a concetti più vicini alla realtà possiamo semplificare affermando che il capitale altro non è che denaro liquido nella disponibilità di un soggetto che decide liberamente di impiegarlo per creare e condurre un'attività economica indipendente.
In questa accezione il capitale ha una caratterizzazione positiva: la creazione di un'azienda ben strutturata e gestita non può che apportare vantaggi, non solo per il soggetto che immette il capitale e si appropria degli utili, ma anche per coloro che vengono coinvolti nell'attività come dipendenti, collaboratori, fornitori. Senza contare i vantaggi per la collettività quando l'attività imprenditoriale genera prodotti o servizi innovativi o a prezzi più bassi rispetto a quelli disponibili fino a quel momento. Ovviamente non mancano le interpretazioni negative: secondo la scuola di pensiero marxista il capitale e mezzi di produzione separati dal lavoro portano quest'ultimo a una sorta di moderno schiavismo a vantaggio dell'accumulazione del capitale stesso tramite i profitti generati dallo sfruttamento del lavoro salariato.
Nel mondo occidentale ha prevalso l'interpretazione, per così dire, positiva: le economie sono fondate infatti sul libero mercato e sull'iniziativa privata basata sull'impiego di capitale privato. Nel mondo orientale dominato dall'Unione Sovietica ha invece prevalso il comunismo, ovvero il sistema socio-economico basato sulla proprietà comune dei mezzi di produzione. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale i due blocchi si sono fronteggiati per decenni nella cosiddetta Guerra Fredda fino alla dissoluzione dell'URSS a cavallo degli anni '80 e '90 e il conseguente abbandono del comunismo a favore di sistemi diversi.
Particolarmente interessante risulta essere il caso della Cina dove già a partire dalla fine degli anni '70, ovvero dalla conclusione dell'era maoista, vennero adottate alcune riforme che introdussero i primi elementi di economia di mercato. Branko Milanović in "Capitalism Alone" analizza l'evoluzione del sistema cinese mettendo in evidenza ciò che maggiormente caratterizza l'organizzazione del gigante asiatico. L'autore riprende la metafora utilizzata da Deng Xiaoping, leader della Repubblica Popolare Cinese dopo Mao Tse-tung: lo Stato deve tenere presente che gli imprenditori sono come uccellini in gabbia. Se la gabbia è troppo piccola soffocano, ma se vengono lasciati liberi volano via: quindi il sistema migliore è creare una gabbia spaziosa.
Deng Xiaoping parlava infatti di "Socialismo con caratteristiche cinesi", ovvero un sistema a prevalenza pubblica ma che permette un'economia di mercato a carattere misto pubblico-privato. Questa impostazione è stata adottata anche in Russia e in alcune zone dell'Africa ma è in Cina che ha trovato la sua espressione massima. Adottando questa struttura il PIL cinese negli ultimi 40 anni ha messo a segno un'accelerazione stellare, consentendo alla Cina di trasformarsi da Paese sottosviluppato a seconda potenza economica mondiale alle spalle degli Stati Uniti.
Il sistema cinese capitalistico "di Stato" ha ottenuto quindi eccellenti risultati se guardiamo alla crescita del Paese nel suo complesso. Purtroppo, fa notare Milanović, ha anche prodotto le stesse distorsioni evidenziate dai sistemi capitalistici "puri" dell'occidente: in particolare la fortissima divaricazione e progressivo distanziamento tra classi più ricche e classi meno abbienti. L'unica differenza è la velocità con cui le disparità si sono create: molto più in fretta in Cina anche a causa della rivoluzione informatica partita negli anni '80.
Il balzo in avanti della Cina ha trainato anche le economie confinanti (come la Corea del Sud e in parte la stessa Russia) attraendo i capitali occidentali. La possibilità di produrre a costi inferiori ha infatti dato una spinta fortissima alla delocalizzazione degli apparati produttivi. Si tratta di un fenomeno inevitabile nel momento in cui sistemi fino a quel momento chiusi e caratterizzati dal dominio assoluto del pubblico sul privato si aprono e si trasformano (seppur parzialmente) adottando criteri di mercato. Il capitale è infatti sempre in cerca delle migliori opportunità di impiego.
Come si articola il sistema capitalistico 16 minCapitalism Alone
Ma non è scontato che per far fruttare i capitali si debba puntare solo ed esclusivamente su disallineamenti del costo della forza lavoro tra i vari Paesi. Anzi, a ben vedere questo è molto lontano dallo spirito imprenditoriale, se per questo si intende la capacità di creare un'impresa di successo. La figura di imprenditore più edificante è quella dell'uomo che parte da zero con un'idea, un'innovazione, un brevetto: un qualcosa che solo lui possiede o ha saputo intravedere. Non sono figure idealizzate che non si ritrovano nella realtà: esistono davvero e sono riusciti a realizzare veri e propri imperi partendo da intuizioni iniziali. Gli esempi sono innumerevoli, soprattutto osservando quanto accaduto negli ultimi 40 anni con la rivoluzione informatica.
Ma l'idea, per quanto brillante e innovativa, da sola non basta per dare vita a una realtà imprenditoriale strutturata e di successo. Per sviluppare l'intuizione iniziale servono, non si scappa, i capitali. Come riuscire ad attrarre le risorse finanziarie verso progetti messi in piedi da giovincelli che lavorano nel fine settimana all'interno del box auto dei genitori? Sembra impossibile che questo sia realmente accaduto, ma è così e in gran parte dei casi il merito è del cosiddetto venture capital.
Venture capital significa letteralmente capitale impiegato in un'impresa rischiosa ed è uno degli strumenti principali per lo sviluppo di imprese innovative, le cosiddette start-up ovvero aziende nate da zero. Si tratta di un'attività talmente importante e foriera di guadagni che esistono molte società che si occupano esclusivamente di questo. Ne parlano Eric Ries e Scott Kupor in "Secrets of Sand Hill Road": il riferimento nel titolo del loro lavoro è alla via di comunicazione che collega Palo Alto, Menlo Park e Woodside nella Silicon Valley. È su questa arteria che si osserva una grande concentrazione di società di venture capital.
Conoscere il capitale di rischio e capire quando investire 23 minSecrets of Sand Hill Road
L'apporto del venture capital è stato fondamentale per le start-up fin dagli '70 ma la sua importanza è cresciuta a dismisura negli anni della crisi finanziaria 2007-2008. In quel periodo la liquidità a disposizione delle banche per finanziare le imprese innovative si prosciugò letteralmente e quindi rimase solo il canale del capitale di rischio a sostenere le start-up. Ma come lavorano i venture capital? Il loro mestiere è investire il capitale su idee innovative: quando queste si rivelano vincenti il rendimento è stratosferico. È ovvio però che il rischio è talmente elevato che ben poche di queste iniziative si concludono con il successo sperato: si stima che tre start-up su quattro finiscano per fallire e in questi casi il capitale investito viene perso pressoché integralmente. Si tratta però di un rischio calcolato: d'altro canto si chiamano venture capital non per caso.
Cerchiamo ora di capire meglio come operano queste società e quali sono i criteri che utilizzano per selezionare gli investimenti. Ries e Kupor analizzano i metodi dei venture capital premettendo un elemento fondamentale: nelle fasi iniziali di vita di una start-up i dati a disposizione sono quasi assenti. Di conseguenza è impossibile effettuare un'analisi su basi quantitative: le valutazioni devono quindi essere condotte su basi qualitative. In particolare, l'attenzione viene rivolta non tanto all'idea (questo può sembrare strano) quanto alle persone, al gruppo di lavoro coinvolto nel progetto. Questo perchè l'idea può essere buona ma se il team non è in grado di svilupparla nella giusta direzione ben difficilmente il rendimento dell'investimento sarà adeguato.
Il secondo elemento di valutazione attiene al prodotto (o servizio) che si intende realizzare. Non deve essere già definito nei minimi dettagli: il prodotto è infatti destinato a essere modificato prima di arrivare sul mercato. Per questo deve mostrare già nella sua forma embrionale una attitudine a evolversi. Ma una cosa non può mancare: deve essere qualcosa di dirompente, fornire prestazioni multiple rispetto al prodotto migliore già presente sul mercato o, in alternativa, avere un prezzo pari a una frazione del preesistente.
Il terzo punto che il venture capital deve analizzare attentamente prima di decidere se investire nel progetto riguarda il mercato e più precisamente la corrispondenza tra prodotto e mercato. Cosa significa? Un prodotto può avere caratteristiche innovative, un prezzo molto basso e quant'altro per diventare potenzialmente un crack ma non riuscirci se non trova il suo mercato. Un prodotto trova il mercato se i consumatori si accorgono che quel prodotto corrisponde alla soluzione di un problema in modo così efficace da non volerne più fare a meno. Attenzione: il problema potrebbe anche non essere ben definito o concreto, ma una volta creata la soluzione questa risulta talmente ben congegnata da far pensare: "e se il prodotto X scomparisse come farei?". Pensiamo a Facebook: prima della sua comparsa quanti sentivano il bisogno di un prodotto simile? Probabilmente pochi, mentre sarebbero milioni ad avere un problema se scomparisse dall'oggi al domani.
A questo punto sorge una domanda: da dove arrivano i capitali che i venture capital si occupano di investire? I mezzi finanziari sono forniti da soggetti chiamati Limited Partner: normalmente sono investitori istituzionali che per esigenze di diversificazione indirizzano parte delle loro risorse verso impieghi molto rischiosi. Nello specifico parliamo di fondazioni, fondi pensionistici statali o di grandi aziende, fondi sovrani, fondi universitari (questa è una tipica tradizione USA, dove è prassi che gli ex alunni facciano donazioni ai college). Ma possono anche essere investitori individuali o i cosiddetti family office (società di gestione del patrimonio di una o più famiglie facoltose). I General Partner sono invece le persone che gestiscono il venture capital: non è escluso che questi investano anche le loro risorse personali nel fondo, nel qual caso sono contemporaneamente Limited Partner e General Partner.
Poco sopra con l'esempio di Facebook si è fatto cenno a una delle maggiori società al mondo in termini di capitalizzazione di mercato. La cosa più impressionante è che è stata fondata nel febbraio 2004: in poco più di un decennio da zero a centinaia di miliardi di dollari di valore in borsa. Una progressione così stupefacente ha molte componenti: una di queste è l'ascesa del capitale intangibile. Questa tendenza è stata certamente favorita dallo sviluppo dell'informatica e dalla rivoluzione tecnologica che ne è derivata. Ma non è solo questo: dopotutto i pc sono asset tangibili. Jonathan Haskel e Stian Westlake nel loro "Capitalismo senza capitale" approfondiscono l'argomento mettendo in evidenza che lo sviluppo dei capitali intangibili va ben oltre l'avvento di pc e software.
Secondo gli autori il concetto di capitale intangibile è molto più ampio e riguarda investimenti molto eterogenei come ricerca e sviluppo, formazione, revisione e rinnovamento dei processi aziendali, opere artistiche, ma anche il design. Catalogare in un elenco definito le varie manifestazioni del capitale intangibile è praticamente impossibile: si va dalla rete dei driver e la reputazione del marchio di Uber, alla rete dei gestori di strutture ricettive di Airbnb, ai metodi di gestione della qualità aziendale Kaizen di Toyota e Six Sigma di Motorola e General Electric.
Tutti gli investimenti in capitale intangibile hanno però quattro caratteristiche che li distinguono nettamente dagli investimenti in capitale tangibile. Haskel e Westlake affermano che gli intangibili innanzitutto sono scalabili, ovvero l'investimento iniziale si riverbera in modo maggiore quanto maggiore è la diffusione del prodotto-servizio ad esso legato (si pensi a una app). In secondo luogo presentano costi irrecuperabili: l'investimento per costruire un brand (un marchio) viene perso totalmente se il progetto si rivela un insuccesso. Gli investimenti intangibili producono contaminazioni (spillover) come ad esempio quelli in ricerca a sviluppo: nuove scoperte normalmente danno vita a ulteriori filoni di ricerca. Infine le sinergie: gli intangibili possono facilmente collaborare tra loro e anche con il capitale tangibile. Basta pensare ai pc e al software che "gira" sugli stessi.
Gli investimenti intangibili e lo sviluppo ecomonico 22 minCapitalismo senza capitale
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