Crisi economica e disuguaglianze: come coniugare crescita ed equità
La crisi del 2007-2008 ha estremizzato la concentrazione della ricchezza
16min
La crisi del 2007-2008 ha estremizzato la concentrazione della ricchezza
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Episodi di Pianeta soldi
"La verità è come la poesia. E la maggior parte della gente odia la poesia".
Molto probabilmente è questa la causa principale che ha determinato la crisi finanziaria del 2007-2008. La citazione è tratta dal film "The big short" del 2015, che nella versione italiana diventa "La grande scommessa".
Nel film si narra la storia di un manipolo di investitori che invece amava la poesia. In pochi riuscirono a capire la verità, ovvero che ormai da diversi anni si stava gonfiando una bolla speculativa, senz'altro meno evidente di quella dei titoli tecnologici di fine anni '90, ma ben più dannosa: diede infatti il via alla crisi economica globale peggiore da quella originata dal crollo di Wall Street del '29.
La genesi primordiale della bolla risale agli anni '80 con la nascita delle CMO, obbligazioni emesse da banche e istituzioni finanziarie garantite da mutui ipotecari. In pratica i mutui per l'acquisto della prima casa già erogati venivano accorpati e poi venduti sotto forma di obbligazioni: cedole e capitale di queste ultime erano pagati grazie alle rate dei mutui e in più erano garantite dalle ipoteche sugli immobili il cui acquisto veniva finanziato dai mutui stessi.
L'accorpamento di migliaia di mutui permetteva di ridurre il rischio di default dell'obbligazione e quindi di tenere gli interessi relativamente bassi rispetto al rischio. Questo generava un vantaggio notevole per la banca che erogava mutui a tassi elevati. Successivamente ci si rese conto che grazie a questo meccanismo era possibile inserire nell'insieme di mutui alla base delle CMO anche contratti stipulati con controparti poco affidabili.
Non tutti coloro che si presentano in banca a chiedere un mutuo hanno profili finanziari adeguati: persone con lavori precari e/o a basso reddito, oppure con stipendi di buon livello ma con altri finanziamenti consistenti in essere. In questi casi può accadere che la banca decida di non concedere il finanziamento per proteggersi dal rischio che il cliente non sia in grado di pagare regolarmente le rate.
Ovviamente la banca può sempre ricorrere al pignoramento dell'immobile e alla successiva vendita per recuperare il capitale ma si tratta di procedure lunghe, costose e quindi si tendeva ad evitarle, per quanto possibile.
Ma, grazie alle CMO, queste remore potevano essere messe da parte. Era infatti sufficiente affiancare ai mutui non di "prima scelta", o subprime, i mutui di massimo livello per ottenere obbligazioni di buon rating, quindi collocabili a tassi di rendimento contenuti. In pratica le banche avevano trovato il sistema per concedere mutui a soggetti che in precedenza sarebbero stati respinti perché inaffidabili e quindi troppo rischiosi.
Tutto ciò riuscendo anche a beneficiare di un ulteriore guadagno. Il meccanismo è descritto da Michael Lewis nel suo libro "La grande scommessa": funzionava talmente bene che le CMO e altri titoli strutturati e/o derivati venivano acquistati da altre istituzioni finanziarie anche all'estero. Al tempo dello scoppio della bolla quasi ogni banca o compagnia assicurativa al mondo aveva a bilancio titoli basati sui mutui subprime americani.
Le CMO furono il grimaldello per aprire gli argini del credito: funzionari e direttori di banca furono ben felici di poter concedere mutui quasi a chiunque, dato che in tal modo la produttività della filiale saliva e altrettanto facevano i bonus. Idem per quanto riguarda il top management: in quegli anni la parte variabile delle retribuzioni di amministratori delegati e CEO arrivò a toccare cifre a sei zeri. In sostanza, il meccanismo creato dalle CMO faceva comodo a tutti: alle persone comuni che si vedevano concedere mutui per acquistare casa pur non avendo redditi e garanzie sufficienti; ai semplici dipendenti degli sportelli bancari; soprattutto, agli alti dirigenti degli istituti di credito.
È ormai chiaro che si erano create le condizioni per l'innesco di una vera e propria bolla.
Il balzo dell'erogazione di mutui generò un boom del mercato immobiliare grazie alla domanda di abitazioni finanziata dai subprime. Le banche continuavano a concedere mutui anche a clienti meno solidi, questi ultimi acquistavano case e i prezzi, ovviamente, salivano. Questo creava una ulteriore spinta verso la richiesta di mutui da parte di persone con basso reddito: pur consapevoli di non essere in grado di onorare il debito confidavano però sulla possibilità di rifinanziare i mutui a condizioni migliori grazie all'aumento del prezzo di mercato delle case acquistate.
C'era anche chi faceva speculazione allo stato puro utilizzando l'abitazione acquistata con il mutuo e rivalutata dal boom dei prezzi come garanzia per chiedere altri mutui per l'acquisto di altri immobili: in "The big short" una ballerina di strip bar ammette candidamente di avere mutui su cinque case e un appartamento.
È semplice rendersi conto che tutto questo castello poteva stare in piedi solo se, e fino a quando, i prezzi del mercato immobiliare residenziale avessero continuato a crescere. Tutte le bolle prima o poi esplodono e anche i prezzi delle case negli USA giunsero al culmine tra il 2005 e il 2006 per poi crollare negli anni successivi. Il risultato fu disastroso per coloro che avevano contratto mutui subprime: la scommessa sul rifinanziamento del debito a condizioni migliori grazie all'incremento del valore dell'abitazione si rivelò perdente. Centinaia di migliaia di persone non furono più in grado di pagare le rate e subirono pignoramenti o vendite forzate concluse in perdita.
Si manifestarono anche fenomeni di subaffitto o abbandono delle case da parte di proprietari che facevano perdere le loro tracce, come è possibile osservare in alcune scene di "The big short". Il crollo del mercato immobiliare creò anche disoccupazione dato che in molti non furono in grado di spostarsi verso i luoghi dove avevano trovato lavoro: non potevano infatti vendere in perdita l'abitazione per acquistarne un'altra nella nuova città o Stato.
Le conseguenze della crisi dei subprime diedero vita alla peggiore crisi economica dai tempi della Grande Depressione.
CMO e relativi derivati persero quasi tutto il loro valore, generando pesantissime perdite: dato che questi titoli erano presenti nei bilanci di banche, assicurazioni e fondi di tutto il mondo, si crearono le premesse per una vigorosa stretta creditizia. Le condizioni per l'accesso ai prestiti bancari diventarono molto più severe, con effetti deleteri sull'attività economica. Inoltre i governi furono obbligati a iniettare capitali nelle banche per riportare su livelli accettabili i coefficienti patrimoniali abbattuti dalle perdite sui famigerati "titoli tossici". Di conseguenza ci fu un aumento dei deficit pubblici e quindi il varo di politiche di "austerity": in altre parole, un incremento della pressione fiscale. Gli effetti della crisi dei subprime andarono pertanto a colpire indistintamente la popolazione mondiale, non solo degli USA.
Gli unici a subire poche o nessuna conseguenza furono i top manager delle banche che avevano approfittato della bolla per guadagnare stipendi multimilionari grazie al trading di CMO e strutturati. Le banche per cui lavoravano vennero multate, ma i manager se la cavarono, nel peggiore dei casi, con risarcimenti molto inferiori ai bonus precedentemente incassati: uno solo finì in prigione, Kareem Serageldin di Credit Suisse.
Una conclusione davvero difficile da accettare pensando alle immagini delle file davanti alle mense delle associazioni di volontariato che tutti ricordiamo.
File dove in precedenza eravamo abituati a vedere clochard e persone in perenne stato di disagio diventarono popolate da gente che fino a poche settimane prima aveva lavori anche ben retribuiti in aziende purtroppo costrette a chiudere i battenti.
Possiamo senza ombra di dubbio affermare che il ceto medio con la crisi del 2007-2008 subì un duro colpo. Questo ha provocato una polarizzazione della ricchezza: la quota in mano alle classi più elevate con la crisi è aumentata. Le persone più abbienti hanno visto migliorare la propria condizione, quelle più in difficoltà sono rimaste tali, mentre la classe media ha fatto un passo indietro, in molti casi passando alla classe inferiore.
In realtà il processo di polarizzazione della ricchezza era in atto già da molto tempo.
Come spiega il premio Nobel per l'Economia Joseph E. Stiglitz in "Il prezzo della disuguaglianza", a partire dalla prima crisi petrolifera del 1973, e poi con l'amministrazione Reagan, negli Stati Uniti si verificò un'inversione rispetto alla tendenza osservata negli anni '50 e '60. In quel periodo le politiche dei governi USA avevano facilitato l'accesso all'istruzione e creato un sistema di imposizione fiscale basato su una marcata progressività.
Tutto ciò aveva favorito lo sviluppo di un processo virtuoso di riduzione delle disuguaglianze.
La crisi del 2007-2008 non fece altro che portare oltre il limite di sopportazione l'eccesso di disuguaglianza. Il movimento Occupy Wall Street del settembre 2011 denunciava il fenomeno mettendo in risalto l'enorme disparità che si era creata tra l'1% più ricco della popolazione statunitense e il 99% più povero.
Come si è arrivati a questa situazione? La risposta di Stiglitz è nella massiccia influenza che le élite, da un certo momento in poi, hanno avuto sull'amministrazione USA. Grazie alla loro capacità di condizionare le scelte dei politici, le classi sociali più potenti hanno ottenuto un annacquamento della progressività del sistema fiscale: in parole povere, sono riuscite a pagare sempre meno tasse.
L'altro elemento di criticità secondo Stiglitz è rappresentato dall'eccesso di potere del sistema finanziario. Le banche sono consapevoli del fatto che il fallimento anche di una sola di esse determinerebbe una crisi con effetti devastanti. Quindi il governo non potrebbe permetterlo.
Troppo grandi per fallire: questa è, nei fatti, la realtà. La consapevolezza del fatto che le istituzioni pubbliche giungerebbero comunque in soccorso un attimo prima del deflagrare della crisi ha spinto le banche ad assumersi rischi eccessivi, come l'erogazione forsennata di mutui subprime. Stiglitz auspica quindi l'implementazione di due riforme: la prima rappresentata dal ritorno a una maggiore progressività degli scaglioni fiscali, con l'aliquota ideale sui redditi più alti intorno al 70%.
L'altra riguarda invece la disciplina delle situazioni di bancarotta, con l'obiettivo di fermare il flusso di denaro dei contribuenti verso compagnie private gestite in malo modo e portate al fallimento.
Il tema delle disuguaglianze non è però limitato agli Stati Uniti ma si spande su scala globale. Le disparità che troviamo negli USA tra cittadini benestanti o ricchi e cittadini della classe medio-bassa sono riscontrabili anche tra gli abitanti dei Paesi avanzati e dei Paesi arretrati. Molti pensavano che la globalizzazione avrebbe potuto colmare buona parte del divario esistente tra le economie e di conseguenza innalzare il tenore di vita dei cittadini del Terzo Mondo. Ma purtroppo non è stato così, almeno fino a ora.
I premi Nobel Abhijit V. Banerjee e Esther Duflo nel loro "Una buona economia per tempi difficili" analizzano il problema e individuano una delle determinanti della situazione attuale nello scarso livello di migrazione. In base ai dati riportati dai due economisti si rileva che la percentuale di migranti nel mondo nel 2017, ovvero in piena globalizzazione, era pari al 3% della popolazione del pianeta: una percentuale simile a quella del 1960 e del 1990.
Come mai in un'epoca in cui gli spostamenti sono più semplici e le informazioni ben maggiori non si assiste a un massiccio spostamento di persone verso le economie sviluppate o comunque verso contesti in cui le possibilità di migliorare la propria condizione sono promettenti?
Oltretutto esistono molti studi secondo cui le migrazioni portano vantaggi sia per i migranti che per la popolazione locale. Non sarebbe infatti vero che gli stranieri tolgono posti di lavoro agli autoctoni, soprattutto nel caso di lavoratori poco qualificati. Una certa tendenza alla sostituzione dei nativi con i migranti si verifica solo al livello dei lavoratori altamente qualificati.
Secondo Banerjee e Duflo la legge della domanda e dell'offerta non funziona nel mercato del lavoro considerato su base globale. Esistono infatti delle forti rigidità che impediscono quella che sarebbe una fisiologica tendenza allo spostamento della forza lavoro verso luoghi dove poter trovare occupazioni meglio retribuite.
I due economisti individuano in un mix fatto di pregiudizi, razzismo e paura nei confronti del migrante da parte delle popolazioni locali la causa principale della scarsa propensione all'immigrazione.
Eliminare questo insieme di sentimenti negativi è molto difficile: Gordon W. Allport, professore di psicologia ad Harvard negli anni '50 approfondì il tema del pregiudizio arrivando infine a individuare nel contatto interpersonale il metodo migliore per superare le difficoltà.
È ovvio però che tra l'individuare la soluzione del problema e il realizzarla c'è una bella differenza. Banerjee e Duflo segnalano anche un altro inconveniente connesso alla globalizzazione. In teoria l'incremento della ricchezza complessiva generato dalla libera movimentazione di merci-servizi e forza lavoro dovrebbe avere effetti positivi su tutti gli attori in campo, ovvero Stati, imprese e lavoratori.
Nella realtà accade invece che i benefici non vengono redistribuiti equamente tra questi i soggetti. Solo le imprese riescono ad approfittare delle opportunità offerte dalla globalizzazione: in parte perché sono molto più rapide nell'adattarsi ai cambiamenti di scenario e in parte perché riescono con la loro attività di lobbying a influenzare gli Stati e ottenere vantaggi a discapito dei lavoratori e degli Stati stessi. Ma gli effetti negativi e indesiderati della globalizzazione non si fermano qui. La crescita del PIL ha indotto un netto incremento delle emissioni di CO2 prodotte dai paesi ricchi.
La maggior presenza di gas serra nell'atmosfera, oltre a inquinare, provoca cambiamenti al clima della Terra: questi cambiamenti si riverberano maggiormente sui Paesi collocati intorno alla fascia equatoriale.
In pratica i Paesi più poveri, oltre a non beneficiare (o a farlo in misura ridotta) della crescita della ricchezza, sono quelli che subiscono maggiormente le negative conseguenze sull'ambiente generate dalla crescita stessa. Banerjee e Duflo auspicano quindi un maggiore interventismo degli Stati al fine di adottare leggi e regolamenti capaci di riequilibrare le forze in gioco e condurre l'assetto socioeconomico globale verso una maggiore equità.
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