Il sistema capitalistico funziona ancora? Le sfide del 21° secolo
I modelli economici del mondo occidentale messi a dura prova dalle crisi
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I modelli economici del mondo occidentale messi a dura prova dalle crisi
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Episodi di Pianeta soldi
L'analisi della storia e dei dati economici dei primi anni del ventunesimo secolo non lascia spazio a dubbi: il sistema capitalistico che ha guidato lo sviluppo del mondo occidentale (e non solo) a partire dal secondo dopoguerra ha accusato colpi durissimi, al punto tale da far ipotizzare ad alcuni la necessità di un ripensamento dell'impostazione complessiva delle economie avanzate.
La brusca flessione del PIL, la crisi del sistema finanziario e del debito pubblico dei Paesi più fragili hanno messo a nudo criticità che fino a pochi anni fa erano rimaste sottotraccia. La fase di crescita prolungata partita dopo la Seconda Guerra Mondiale ha pertanto subito una battuta d'arresto.
Quando si parte da una ricostruzione post bellica è più facile veder aumentare tutti gli indici di analisi. Questo spiega in parte il folgorante sviluppo partito a cavallo degli anni '40 e '50 del secolo scorso. In parte, dato che il solo "effetto rimbalzo" avrebbe sì fornito una spinta veemente, ma solo per un breve periodo, non essendo idoneo a garantire un'estensione nel tempo del recupero.
Il vero motore del prolungato boom post-bellico sono stati gli interventi degli Stati usciti vincitori dal conflitto, in primis gli USA. La decisione presa a Washington di intraprendere politiche espansionistiche capaci di coinvolgere il mondo intero fu il frutto di un piano ben preciso: evitare che si ricreassero le condizioni che avevano determinato l'ascesa del nazionalsocialismo in Germania e quindi l'inizio della guerra. Tutto ciò si concretizzò nel Piano Marshall, un programma di aiuti ai Paesi europei non appartenenti al blocco-URSS da quasi 13 miliardi di dollari tra il 1948 e il 1951. Il piano ebbe successo sia grazie alle dimensioni sia al fatto che si innestò su una fase di ripresa già evidente tra il 1947 e il 1948. Nel '51 i Paesi beneficiari (Regno Unito e Francia soprattutto) avevano già recuperato i livelli di PIL precedenti alla guerra.
Ne seguì un periodo di forte crescita pressoché ininterrotta per circa due decenni, fino all'inizio degli anni '70. Questo ultimo decennio fu caratterizzato dalle crisi petrolifere e dal ritorno di regimi dittatoriali in Sudamerica. La crescita rallentò notevolmente fin quasi ad arrestarsi in una stagflazione (stagnazione + inflazione indotta dal boom del prezzo del petrolio). Con gli anni '80 si assiste a una nuova fase di crescita consistente che si protrarrà fino al 2007-2008 (con una pausa nei primi anni '90 dopo la Guerra del Golfo).
E infine la grande crisi del 2007-2008 causata dall'eccessivo ricorso ai mutui subprime da parte delle banche USA e al conseguente scoppio della bolla immobiliare. L'onda d'urto colpì le istituzioni finanziarie di tutto il mondo a causa della diffusione planetaria di titoli sintetici realizzati accorpando portafogli di cartolarizzazioni di mutui insolventi e garantiti da immobili svalutati.
Le cause e le conseguenze della crisi hanno acceso un faro su uno dei problemi individuati da Joseph Stiglitz in "People, Power, and Profits" ovvero quello del settore finanziario. Per l'autore banche, assicurazioni, fondi hanno perso di vista la loro funzione primaria, ovvero la creazione delle strutture di intermediazione risparmio-credito e circolazione della liquidità volte a favorire la crescita economica.
La sempre maggiore influenza delle istituzioni finanziarie ha permesso loro di acquisire potere sufficiente ad ambire a una vera e propria esplosione dei profitti. Ma non è tutto: il sistema finanziario-creditizio è indispensabile per il funzionamento dell'economia, pertanto gli Stati sono sostanzialmente obbligati a salvare banche e assicurazioni in caso di bisogno. Questa consapevolezza ha spinto i manager delle grandi società finanziarie ad assumere atteggiamenti ancor più aggressivi, nella certezza che la mano pubblica giunga comunque in aiuto.
Il sostegno dei governi è puntualmente arrivato e le istituzioni finanziarie sono state salvate, ma purtroppo non è stato altrettanto per il tessuto economico. La crisi innescata dai subprime ha infatti generato un corposo slittamento verso l'alto della percezione del rischio da parte degli investitori. Questo, unitamente al peggioramento dei coefficienti di solidità patrimoniale delle banche e alla rarefazione degli scambi sul mercato interbancario, ha provocato una stretta creditizia che ha mandato al tappeto le imprese, per poi propagarsi a catena sui redditi da lavoro dipendente e quindi sui consumi, innescando la caduta del PIL.
Le conseguenze nefaste dell'eccesso di potere della finanza si sono spinte oltre. La crisi si è infatti rivelata talmente profonda da mettere in difficoltà i conti pubblici degli Stati più fragili. La caduta del PIL determina infatti una rapida crescita del rapporto Debito/PIL, un parametro basilare in un sistema a moneta unica come l'eurozona. Da qui il balzo degli spread (che indicano la rischiosità dell'investimento in titoli di Stato) di Grecia e Italia nel 2010-2011, con il salvataggio del Paese ellenico e le misure di austerity decise a Roma dal governo tecnico guidato da Mario Monti.
A questo punto possiamo trarre alcune conclusioni: prima tra tutte è quella che la "mano invisibile", ovvero il meccanismo ipotizzato secoli fa dall'economista Adam Smith, non esiste. Stiglitz afferma che l'evidenza storica dimostra che l'assunto in base al quale l'economia di mercato, se lasciata libera di agire, riesce spontaneamente a trovare un equilibrio efficiente e favorevole a tutti, imprenditori, lavoratori e consumatori, semplicemente non funziona.
Secondo Stiglitz infatti le imprese non si muovono nel tessuto economico cercando di incrementare ricavi e profitti realizzando prodotti e/o servizi sempre più competitivi con i quali battere la concorrenza. L'obiettivo è piuttosto quello di eliminare i concorrenti o accordarsi con essi e quindi raggiungere il dominio del mercato (il tutto utilizzando mezzi più o meno leciti) per poi dettare le regole. Quindi il libero mercato non determina un assetto di prezzi, redditi e profitti equilibrato ma una situazione che vede avvantaggiarsi solo questi ultimi. Ovviamente governi e legislatori hanno tentato di limitare detti comportamenti adottando leggi apposite ma non si è riusciti a mitigare questi meccanismi in modo efficiente.
La globalizzazione, ovvero il fenomeno osservato negli ultimi 30 anni circa caratterizzato dalla libera circolazione di beni, capitali e forza lavoro tra i Paesi del mondo, ha contribuito ad accentuare alcuni dei fenomeni negativi descritti finora. Contrariamente a quanto molti si attendevano, la globalizzazione ha determinato un ampliamento delle disparità, finendo per rendere più ricchi coloro che già lo erano e più poveri quelli che versavano in condizioni di indigenza.
In questo contesto, come già accaduto in passato, la risposta delle masse in difficoltà è quella di appoggiare movimenti populisti. Questi ultimi fanno leva su sentimenti come il nazionalismo e il razzismo per instaurare regimi a trazione conservatrice basati su politiche economiche altamente remunerative dal punto di vista del consenso elettorale come il protezionismo e la riduzione delle tasse. A questo punto è evidente che il problema si sta spostando dall'economia alla politica. Gli Stati democratici sono in grado di garantire benessere ed equità diffusi e quindi scongiurare crisi economiche e derive autoritarie?
Dambisa Moyo in "Edge of Chaos" analizza il problema dell'adeguatezza del modello democratico alla luce degli eventi descritti finora. Secondo l'autore quanto accaduto negli ultimi tre decenni circa rivela che le democrazie occidentali si sono dimostrate incapaci di adottare gli opportuni correttivi al modello capitalistico e al libero mercato e in questo modo garantire le condizioni per uno sviluppo economico equilibrato.
Moyo, come Stiglitz, sottolinea il pericolo delle derive protezionistiche e autoritarie, soprattutto alla luce del successo conseguito dalla Cina, oggi seconda potenza economica mondiale grazie alla poderosa accelerazione messa a segno a partire dagli anni '90. Il modello autoritario del gigante asiatico potrebbe pertanto rappresentare per molti un centro di attrazione fatale.
Quale alternativa quindi tra un sistema democratico ma inefficiente e uno autoritario ma foriero di benessere? Per Moyo la soluzione è quella di adottare cicli politici più lunghi. Attualmente le legislature durano troppo poco e i politici, puntando a prolungare il loro potere e quindi a farsi rieleggere, sono concentrati sull'ottenere risultati immediati senza pensare a implementare misure volte a creare le basi per uno sviluppo efficiente e duraturo. Questa tendenza in molti Stati occidentali è favorita anche dal progressivo invecchiamento della popolazione (quindi maggiore domanda di provvedimenti validi nell'immediato) e dal sempre più evidente distacco dei giovani dalla politica e dal governo del Paese: a che serve legiferare con una visione di lungo termine se poi i diretti beneficiari nemmeno se ne accorgono?
In particolare Moyo ritiene che le legislature dovrebbero avere una durata approssimativamente coincidente con quella dei cicli economici. Un'altra misura da adottare è il divieto dei finanziamenti da parte dei privati a politici e partiti: è evidente che grandi aziende o gruppi dispongono di ingenti capitali e con questi possono esercitare pressioni per ottenere vantaggi e concretamente lo fanno con l'attività lobbistica.
Moyo si spinge oltre proponendo qualcosa di molto forte: un ripensamento di quello che sembrava una conquista storica dei popoli, ovvero il suffragio universale. Per l'autore l'invecchiamento della popolazione e il distacco dei giovani dalla politica stanno rendendo il suffragio universale inadatto a governare il sistema. L'alternativa potrebbe essere quella di attribuire agli elettori un punteggio tramite dei test per accertare se sono informati e se hanno le capacità per esprimere il voto con cognizione di causa. Il punteggio ottenuto verrebbe utilizzato per assegnare maggiore o minor valore al voto espresso.
Come la democrazia incide sulla crescita economica 18 minEdge of Chaos
Si tratta ovviamente di un'ipotesi estrema e anche discutibile, mentre la proposta di estensione della durata delle legislature potrebbe avere qualche possibilità in più, almeno a livello teorico. Si tratta in entrambi i casi di soluzioni di tipo istituzionale al problema dello sviluppo efficiente ed equo di un sistema capitalistico. E se invece la via di uscita fosse di stampo squisitamente economico? Riprendendo uno dei concetti di Stiglitz è possibile tracciare una via verso la prosperità sostenibile. L'economista ritiene infatti che le innovazioni tecnologiche siano una minaccia: se innestate su un tessuto che già vede prevalere il profitto sul reddito da lavoro, rischiano di acuire le disparità.
Ma c'è innovazione e innovazione: Clayton M. Christensen, Efosa Ojomo e Karen Dillon nel loro "The Prosperity Paradox" sostengono invece che un particolare tipo di innovazione costituisce il motore ideale per favorire la crescita diffusa del benessere in un Paese: secondo gli autori si tratta delle innovazioni che creano mercati. A loro avviso ci sono altri due tipi di innovazioni, quelle di sostenibilità e quelle di efficienza. Le prime apportano solo miglioramenti a prodotti o servizi già esistenti: soddisfano le richieste di consumatori più esigenti ma non ne creano di nuovi e in definitiva il loro contributo allo sviluppo non è significativo. Le innovazioni di efficienza incrementano la produttività dei processi, favoriscono la crescita dei profitti e rischiano di ridurre la domanda di forza lavoro.
Le innovazioni che creano mercati determinano invece un reale salto di qualità del sistema: grazie ad esse alcuni individui, per i quali non esistevano prodotti o servizi adatti, diventano consumatori grazie all'invenzione di un prodotto/servizio che non esisteva o grazie al fatto che il prodotto/servizio diventa accessibile da inaccessibile che era. Queste innovazioni normalmente creano anche nuovi posti di lavoro e questo genera un effetto a catena, un circolo virtuoso che parte dai nuovi occupati e prosegue con l'attrazione di nuovi investimenti.
Ovviamente realizzare un'innovazione di questo tipo non è semplice. Occorre innanzitutto capire come mai gli individui non sono consumatori. Normalmente questo accade perchè non possono permettersi un prodotto esistente, perchè non lo sanno usare, perchè non possono accedervi o infine perchè il tempo richiesto dal prodotto/servizio è proibitivo. Normalmente questi ostacoli vengono superati con una tecnologia di produzione innovativa o con una nuova rete di produzione: in entrambi i casi il risultato è un abbassamento del prezzo. Ma c'è di più: per Christensen, Ojomo e Dillon le innovazioni che creano mercati favoriscono anche lo sviluppo di infrastrutture e l'evoluzione delle istituzioni di un Paese. Come affermava Henry Ford “Ogni successo è la madre di molti altri”.
Basarsi sull'innovazione per far uscire un paese dalla povertà 18 minThe Prosperity Paradox
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