Cos’è e quanto conta oggi l’economia dell’attenzione
E perché interessa le aziende, il marketing, i media e tutti noi
17min
E perché interessa le aziende, il marketing, i media e tutti noi
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Episodi di Pianeta soldi
Eppure, fermatevi un attimo e pensate all’ultima cosa che avete fatto prima di leggere questo articolo o proprio mentre lo state leggendo: mangiare uno snack, chiacchierare con un amico al telefono, preparare del cibo, ascoltare il compagno/a, marito/moglie che racconta la propria giornata.
Provate a ricostruire ogni singolo momento per vedere se, in primis, ricordate tutti i dettagli. Provate poi a pensare se ogni azione di queste non è stata interrotta da qualcosa che con l’azione stessa forse non c’entrava molto: un pensiero ricorrente, il dover aggiornare l’agenda, la lavatrice da fare, una telefonata, un messaggio su WhatsApp, la notifica di una diretta su Instagram.
Fare una cosa senza essere davvero interrotti o senza auto-interrompersi - che è molto diverso - è qualcosa che al giorno d’oggi raramente riusciamo a fare. O forse è prerogativa di chi pratica lo yoga che sa che deve vivere il momento presente e “restare nella posizione”. In un’era in cui abbondano gli stimoli, ci si potrebbe chiedere, di contro, cos’è che scarseggia?
Se manca infatti il cibo, il lavoro, se scarseggiano gli ospedali, si tratta di qualcosa che effettivamente può essere quantificato e misurato e cui si può provare a ovviare con azioni concrete. Ma se scarseggia l’attenzione che è estremamente volatile e intangibile, cos’è che possiamo fare? Come la possiamo misurare, incanalare, aumentare?
Ecco perché si parla di economia dell’attenzione e l’attenzione è diventata una delle merci più importanti di questo nostro mondo insieme ai dati. Eh già, non è tanto l’acquisizione di denaro quello cui ambiscono le grandi aziende, in particolare tecnologiche, ma è il vincere la guerra dell’attenzione.
La competizione è quando il post che abbiamo scritto su Facebook compete per esempio con foto con gattini, con le ultime dichiarazioni di Chiara Ferragni, con il farmaco che dovrebbe curare la calvizie per sempre.
E in tutto questo, paradossalmente, come ha dichiarato qualche anno fa il CEO di Netflix Reed Hasting, il concorrente arriva addirittura a essere il sonno. Potreste obiettare che per chi fa binge watching - ossia guarda le serie TV macinando episodi su episodi per ore e ore di seguito - questa concorrenza è quasi scontata. Se però ci astraiamo da Netflix, come prodotto e servizio, quello del sonno è forse l’unico momento in cui facciamo un’unica cosa senza distrazioni: dormire e sognare.
Di contro, il centellinare la nostra attenzione su tantissime cose, illuderci di essere multitasking, l’organizzare una giornata lavorativa come un elenco di compiti da svolgere e provare soddisfazione mentre li si spunta, dimostra che parlare di economia dell’attenzione è necessario così come è importante darle… la dovuta attenzione.
Il libro “It doesn’t have to be crazy at work”, scritto da Jason Fried e David Heinemeier Hansson, d’altra parte, lo dice chiaramente: l’esaurimento costante non è un distintivo di onore, ma un segno di stupidità. Anche perché più le persone lavorano a ritmi folli meno risultati ottengono. E questo non si risolve aumentando le ore di lavoro, ma evitando di sprecare il tempo e diminuendo distrazioni e motivi di ansia. Un tema che ci interessa dunque dal punto di vista lavorativo, indubbiamente, ma anche dal punto di vista sociale nonché per quel che concerne la fruizione di informazioni.
Ecco perché l’economia dell’attenzione andrebbe addirittura studiata a scuola e se ne dovrebbe parlare sempre più spesso, nei media, nei luoghi di lavoro, tra gli amici. E qualche corso in tal senso in effetti c’è: l’Università della Svizzera Italiana dedica a essa una parte del corso “Media economy and policy” tenuto dal professor Matthew Hibberd. Così come nella piattaforma online di Sarder Learning, Dongshuo Li affronta il tema dell’economia dell’attenzione in merito al futuro dell’apprendimento.
D’altra parte, il concetto non è così nuovo: lo ereditiamo da inizi anni ‘70 quando a parlarne per la prima volta e dunque a coniarne l’espressione fu l’economista Herbert Simon, premio Nobel per l’Economia nonché psicologo, che ipotizzò come l’attenzione fosse il collo di bottiglia dell’essere umano e che, come tale, limitasse ciò che possiamo percepire in ambienti stimolanti ma anche ciò che possiamo fare.
Ancora la lingua inglese ci permette di soffermarci e spiegare meglio l’accostamento tra l’attenzione e l’economia, concetto che appunto di solito associamo al denaro. Gli Anglosassoni dicono “Pay attention” e in quel pay ci sono due aspetti: l’attenzione è una moneta e come tale è quantificabile. Il “pagarla”, inoltre, indica che le risorse che abbiamo riguardo a essa possono essere illimitate.
In italiano la consideriamo più come un prestito, anche se pure nell’uso di questo termine è nascosto un significato legato al valore di risorsa dell’attenzione. Prestarla vuol dire che l’abbiamo e la concediamo a qualcuno per poi in un certo senso riprenderla. Come se l’attenzione, dice la pubblicitaria Annamaria Testa sul suo blog Nuovo e Utile, “fosse un capitale di cui disponiamo, che spendiamo per entrare in contatto col mondo”.
Sul concetto di economia dell’attenzione si sono espresse tante altre personalità influenti: nel 1997 il fisico teorico Michael Goldhaber fece notare come l’economia internazionale si stesse spostando dall’essere basata sui materiali e sui prodotti a un’economia basata sull’attenzione.
Leggendo cosa dice ancora Goldhaber nel suo “The attention and the Net”, emerge un aspetto importante che insiste ancora di più sul risvolto economico: se persone o brand hanno tanta attenzione - basti pensare agli influencer per esempio - non hanno problemi a ottenere denaro in grandi quantità.
Persone note che se vogliono realizzare un progetto o sostenere una causa - come Chiara Ferragni e Fedez e quello che hanno fatto durante il Lockdown nella prima metà del 2020 - non hanno problemi a influenzare pubblico e sponsor e a far sborsare dei soldi. E questo perché chi li segue è disposto a fare molto per accontentare le loro richieste e per sostenere il loro progetto.
Per capire ancora meglio il concetto, il fisico fa l’esempio opposto: se vogliamo pagare una persona per darci attenzione questo non funziona. Ricompensare con del denaro una persona per leggere questo articolo, pagarlo per ascoltare qualcuno che legga una cosa noiosa come l’elenco telefonico non vuol dire avere un’attenzione continua, né tantomeno garantirsi che qualcuno non si addormenti (anche se è pagato!) o che la sua mente non vaghi.
Goldhaber dice che la nostra però non è l’economia dell’informazione anche se molte carriere si costruiscono su di essa e meno sulla produzione (sempre meno persone ne sono coinvolte e sempre meno lo saranno con l’intelligenza artificiale), ma dell’attenzione. Perché se le informazioni sono abbondanti, l’attenzione in realtà scarseggia.
E lo diceva anche Simon più di 20 anni prima:
“L’informazione consuma attenzione. Quindi l’abbondanza di informazione genera una povertà di attenzione e induce il bisogno di allocare quell’attenzione efficientemente tra le molte fonti di informazione che la possono consumare”.
Che esista dunque un’economia dell’attenzione è chiaro a tutti coloro che fanno marketing e infatti si può parlare anche di un attention marketing ossia di un marketing dell’attenzione.
Lo fanno Vincent F. Hendricks e Vestergaard nel libro “Reality Lost” che ricordano come l’attenzione sia estremamente preziosa per chiunque abbia qualcosa da vendere, sia un prodotto, il proprio brand o la pubblicità.
Ed ecco perché i dati sono strettamente collegati all’attenzione: permettono di capire il tempo di permanenza su un sito, per quanti secondi una persona rimane a guardare un video - sia esso su YouTube o su Facebook -, quante persone si collegano a un webinar e restano dall’inizio alla fine e interagiscono con le domande che vengono poste in diretta. E ancora: gli insights (dati) di Instagram ci dicono se una story è ben costruita o meno. Come? Se è composta da 7 “puntate” e le persone hanno visto tutte e 7 è un bene, se dopo la prima cominciano a calare sensibilmente c’è qualcosa che non va con la story di copertina: non ha catturato davvero l’attenzione e di conseguenza non ha creato coinvolgimento.
Tutto il web design, la user experience (ossia lo studio dell’esperienza dell’utente e delle interazioni che ha con il prodotto digitale), la stessa SEO (ottimizzazione di siti, testi e pagine per essere trovata dai motori di ricerca) hanno a che fare con questo. Nel marketing e per il marketing l’attenzione è tutto.
Ecco perché si costruiscono app che mandano notifiche e che siano allo stesso tempo degli ambienti dove per gli utenti è sempre più piacevole restare, si realizzano siti belli da navigare, ma soprattutto funzionali e che, in ottica di user experience, facciano compiere all’utente un percorso chiaramente indicato. Diversamente, se diventa arzigogolato, se l’utente non capisce che strada sta percorrendo, la sua attenzione tende a calare e in un sol momento può essere catturata da qualcos’altro.
E questo vale ancora di più per il mobile marketing, ossia quel marketing che basa le proprie considerazioni e la propria attività sul fatto che la persona stia fruendo quel contenuto in mobilità, mentre è in metro o cammina quindi con un’attenzione che non può essere mai al 100%.
Questo vale anche per chi fa informazione. In un mondo in cui le informazioni sono sovrabbondanti i media devono agire in modo diverso rispetto al passato. Non basta puntare sulla notizia in sé e per sé, ma soprattutto online e considerando una lettura essenzialmente da smartphone, devono lavorare per avere titoli e immagini che facciano venire in primis voglia di fermare il pollice senza però tradire il patto con il lettore.
Se infatti il titolo fa una promessa che poi non è mantenuta, il lettore tende a scappare quindi sicuramente non conviene applicare la pratica del click baiting, vale a dire quel titolo che invita al click senza che poi dentro ci sia quello che è stato annunciato, anzi. In questo caso la partita con l’attenzione è persa fin da subito.
In secondo luogo i media devono creare per il lettore un ambiente confortevole. Chi legge un testo da desktop, secondo uno studio del Nielson Norman Group che ha tra i suoi fondatori il “padre” della user experience Jacob Nielsen, lo fa con un modello a F, ossia va da sinistra a destra più volte per poi scendere in verticale. Chi lo fa da mobile, secondo un modello a I per cui scorre il testo andando verso il basso.
Creare un ambiente confortevole vuol dire puntare sul visual di un testo con immagini, grafiche, titoli dei paragrafi attraenti, “leggi anche” e così via, ma allo stesso tempo agevolare la lettura con grassetti su parole chiave, con la varietà di link che rimandano agli argomenti giusti. Senza dimenticare che, se il lettore è arrivato da un motore di ricerca cercando una cosa ben specifica, l’ottimizzazione del testo in ottica SEO dovrà far sì che questa cosa la trovi davvero. La battaglia per l’attenzione dunque anche per i media non si gioca solo sul contenuto “shock”, ma sul mettere insieme visual, user experience e utilità.
Ecco perché molti giornali più che inseguire sempre e comunque la notizia, rischiando di assomigliarsi tutti, dovrebbero puntare sul riorganizzare l’ambiente ma anche sul dare le informazioni in modo diverso, con un punto di vista diverso e che sia spiegato diversamente. E che faccia emergere aspetti trascurati o non approfonditi o che risponda a dei dubbi che i lettori hanno e cui nessuno finora ha risposto. È quanto fa esempio il Post con i suoi articoli sul Coronavirus - ma in generale, visto che si pone l’obiettivo di spiegare gli argomenti di attualità - e con una newsletter dal titolo “Sul Coronavirus” tuttora molto letta.
Creare consapevolezza dev’essere un must per chi fa informazione.
Vale anche per le aziende. Di come debbano battagliare per l’attenzione abbiamo già parlato dal punto di vista del marketing. È però necessario dire che la loro di attenzione deve concentrarsi sul costruire al meglio il brand verso l’esterno, ma anche e soprattutto verso le proprie persone interne.
Lato esterno, un’azienda che vuole creare un brand forte in una società in cui si lotta contro tutti, deve smettere di fare una comunicazione frettolosa e che copi gli altri, ma deve puntare sui propri valori, sul comunicare la propria cultura aziendale, sul rafforzarla, sul renderla visibile ai clienti esterni, ai prospect ma anche a chi ha dentro.
Ma soprattutto non deve trascurare i propri lavoratori specie in un momento delicato come questo. Si legge spesso di gente che lavora a tutte le ore perché è in modalità smart working, ma lavorare fino allo stremo, come ricordano Judd Hoekstra ed Erick Hariding “Rick Peterson” nel libro “Crunch Time”, non significa farlo fino a crollare sulla scrivania, ma mettersi alla prova in contesti sempre più complicati che ovviamente non capitano sempre.
Nel libro, gli autori ricordano come Wilson Alvarez, giocatore di baseball professionista, si allenasse a lanciare a occhi chiusi, in modo da essere pronto a tutto. Le aziende dovrebbero allenare proprio questo nei propri dipendenti: la capacità di essere pronti a cambiare il passo, senza morire dietro a questa sfida, ma affrontandola con la giusta concentrazione possibile, con la dovuta attenzione.
E non pensare, di contro, che per tenere stretti a sé i dipendenti bastino la crisi che stiamo vivendo e lo stipendio. Lo abbiamo detto prima: i soldi non riescono a comprare davvero l’attenzione, ossia quel rivolgere l’animo verso l’altro. Questa viene stimolata dal creare consapevolezza, dal puntare sulla collaborazione, sulla formazione continua, sul social learning e sul rendere partecipi le persone dei processi all’interno dei quali si trovano.
I segreti dei grandi per migliorare la propria vita 13 minCrunch Time
E se spesso la tecnologia è abilitante per i processi che abbiamo detto sopra, c’è anche da dire che spesso diventa l’alibi dietro cui ci nascondiamo per giustificare la nostra distrazione e la mancanza di produttività.
La distrazione, che è il contrario di trazione e che si situa sempre al lato opposto dell’attenzione, però, non è colpa della tecnologia. Non basta evitare di usare lo smartphone per eliminarla, anche perché come dicono Nir Eyal e Julie Li, autori di “Come diventare indistraibili” se oggi c’è il cellulare, in passato c’era la tv, la radio e persino i libri erano indicati come fonte di distrazione.
La distrazione è un segnale che qualcosa al nostro interno non va, che c’è un disagio, che non stiamo realmente vivendo la vita che vorremmo quindi, come spiegano i due scrittori, dovremmo chiederci cosa ci sta facendo soffrire e perché ci distraiamo.
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Ed è una cosa che gli stessi HR, ritornando al posto di lavoro, dovrebbero analizzare costantemente. Ma al di là del contesto lavorativo dovremmo considerare la distrazione come qualcosa su cui riflettere e soffermarci. Sì, porre attenzione alla distrazione. Solo così facendo si può capire cosa non va anziché inseguire la concentrazione a tutti i costi e frustrarsi perché non la si ha. Da qui può partire un percorso di miglioramento di se stessi che prevede l’accoglimento di quello che siamo in questo momento.
D’altra parte, come diceva Susanna Tamaro nel libro “Anima mundi” “L’amore è attenzione”. E ciò vale anche verso se stessi.
Come evitare le distrazioni ed essere produttivi 19 minCome diventare indistraibili
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