Episodi di Psicolibrarsi
01. Resilienza e resistenza
Resilienza è un termine che fino a pochi anni fa era sostanzialmente sconosciuto al grande pubblico ed era utilizzato solo da tecnici e psicologi. Come spesso succede, questa parola ha iniziato a essere usata dagli "opinion leader" ed è diventata popolare, sostituendosi molto spesso a resistenza nel linguaggio comune: sono termini che di solito vengono utilizzati indifferentemente nonostante il fatto che esprimano concetti decisamente diversi.
La resistenza, in meccanica, è una forza che si oppone al moto del corpo a cui è applicata: quindi un'azione finalizzata a contrastarne un'altra. La resilienza in senso tecnico è invece la capacità di un materiale di sopportare un urto e quindi evitare la rottura. Nel senso comune per resistenza si intende l'opposizione psicologica alla volontà, ai propositi e alle intenzioni altrui.
02. Resilienza per estensione dal campo tecnico
Per la resilienza non è invece possibile ricavare un'accezione popolare dato che, come già detto, si tratta di un termine quasi sconosciuto fino a poco tempo fa.
Per l'utilizzo di questa parola al di fuori dei contesti tecnico-meccanici dobbiamo fare riferimento al significato che assume in psicologia, ovvero la capacità di reazione a traumi e difficoltà: questo avviene grazie all'intervento delle risorse interiori e alla riorganizzazione in chiave positiva della struttura della personalità, operazioni con cui si arriva al recupero dell’equilibrio psicologico precedentemente destabilizzato.
La creazione di questo concetto come estensione dal campo delle scienze fisiche e ingegneristiche si deve al lavoro del neuropsichiatra francese Boris Cyrulnik, che nel saggio "Un merveilleux malheur" del 1999 ha teorizzato la cosiddetta plasticità psichica.
03. La resilienza che inibisce la resilienza
Riflettendo sul significato del concetto di resilienza non può sfuggire che si tratta di una qualità innata nell'uomo. La storia del genere umano è caratterizzata sin dagli albori dalla capacità di fronteggiare difficoltà e disagi, superarli e quindi progredire verso stadi evolutivi successivi.
Inizialmente il problema era la sopravvivenza, oggi è l'aggiornamento del sistema operativo del proprio smartphone: le difficoltà cambiano con il passare del tempo e dello sviluppo socioeconomico ma l'essere umano è e resta "programmato" per essere resiliente. Il progresso di millenni realizzato grazie alla resilienza ci ha però condotto a un livello di benessere tale che molti individui si rifiutano di risolvere un eventuale problema riadattando i propri comportamenti: per quale motivo dovrei affrontare un processo impegnativo quando intorno a me tutti vivono bene e non rischio nulla di fondamentale?
Si arriva al paradosso per cui l'esercizio della resilienza viene inibito dal progresso indotto dalla resilienza stessa.
04. La necessità di recuperare l'attitudine alla resilienza
C'è però un altro meccanismo per il quale molti individui si rifiutano di essere resilienti, ed è anch'esso in qualche misura collegato al progresso socioeconomico.
Nel mondo attuale siamo costantemente messi di fronte a modelli pressoché perfetti in ogni contesto. Cercare di raggiungerli è sostanzialmente impossibile e ne siamo coscienti. Pertanto ogni tentativo di avvicinarsi a questi modelli è destinato a fallire: la prospettiva del fallimento è un inibitore molto potente, spinge molti alla resa preventiva e riduce grandemente le energie psicofisiche di coloro che ci provano.
Tutto ciò finisce inevitabilmente per depotenziare l'attitudine dell'individuo a essere resiliente. Occorre quindi dotarsi di una disciplina capace di riattivare questa qualità fondamentale dell'essere umano.
05. La valutazione cognitiva: il punto di partenza
Il primo passo per recuperare la resilienza è lavorare su quella che Pietro Trabucchi nel suo "Resisto Dunque Sono" chiama "valutazione cognitiva". Si tratta dell'interpretazione che ogni persona dà agli eventi che deve affrontare: da questa deriva lo stato d'animo con cui viene messa in essere la reazione agli stessi eventi. Una valutazione negativa - il bicchiere mezzo vuoto - è un handicap in partenza e rischia di depotenziare ogni azione successiva.
Viceversa, una valutazione positiva crea un ambiente favorevole allo sviluppo di comportamenti resilienti: in pratica instilla nell'individuo la convinzione di potercela fare. Si tratta però solo del primo passo. L'essere convinti di riuscire a raggiungere un obiettivo serve a ben poco se non viene supportato dall'impegno e soprattutto dalla presa di responsabilità per quello che facciamo.
06. La ristrutturazione dei processi mentali: elemento base della resilienza
Altro elemento fondamentale per il successo delle azioni resilienti è la gestione delle difficoltà che si incontrano nel percorso. Il rischio è che gli insuccessi parziali riescano a smontare la motivazione dell'individuo e portino al fallimento.
Per ridurre questo rischio Trabucchi indica due tecniche: una è la "ristrutturazione cognitiva", ovvero la capacità di trovare significati positivi in ogni evento; l'altra, sicuramente più alla portata di tutti, è quella di suddividere il percorso in tappe, in obiettivi intermedi facilmente raggiungibili.
Questa tecnica permette di trovarsi ad affrontare difficoltà meno pronunciate e più facilmente gestibili, quindi superabili. Una serie di piccoli successi permette di arrivare gradualmente alla meta ma non solo: crea anche benefici a livello neuronale dato che il nostro cervello, se viene sottoposto ai segnali positivi generati dai successi, ristruttura il proprio assetto e si abitua a interpretare i messaggi provenienti dall'esterno nello stesso senso.
07. Il coach della resilienza: lo sport
La descrizione di questo processo è talmente lineare da farlo sembrare semplice. Ovviamente non è così: metterlo in pratica può presentare difficoltà insormontabili. Il problema potrebbe essere risolto qualora riuscissimo a trovare un metodo per allenare la mente a diventare resiliente.
Fortunatamente questo metodo esiste: è lo sport. Lo sport è un'ottima palestra dato che fornisce di base motivazioni supplementari come il divertimento e/o il desiderio di mantenersi in forma. Lo sport presenta difficoltà e sfide che possono facilmente essere scomponibili in tappe e obiettivi intermedi che, una volta realizzati, forniscono ulteriore linfa, tramite la fortificazione dei meccanismi neuronali visti sopra.
L'ambiente mentale che lo sport riesce a creare è utilizzabile anche in altri contesti come quello professionale, sentimentale e più in generale nell'intera dimensione umana.
08. La resilienza, una dote fondamentale per i top manager
Un contesto dove la resilienza risulta essere decisiva è quello in cui si trovano a operare gli amministratori di importanti società commerciali.
Il top management è costantemente sottoposto allo stress di dover prendere decisioni, sia riguardanti la gestione quotidiana, sia relativi a scelte strategiche in ottica temporale pluriennale.
È fondamentale per queste persone essere in grado di rispondere alle sfide assorbendo le informazioni provenienti dall'esterno e rielaborando la propria impostazione, il proprio atteggiamento verso i problemi che si manifestano al fine di riuscire a gestire le situazioni stressanti.
09. Unire passione per lo sport e spirito imprenditoriale
I punti di contatto tra sport e imprenditoria, è evidente, sono molti. Pensare per obiettivi, allenarsi quotidianamente per migliorare, seguire un programma, testare i risultati, gestire lo stress: sono tutti aspetti che accomunano le due discipline.
Non sorprende quindi che esistano storie imprenditoriali di successo che sono state "accese" dalla passione per lo sport. Una di queste è particolarmente significativa dato che lo sport, oltre a essere stato la scintilla per la creazione di un vero colosso mondiale, ne costituisce anche il settore di attività.
Tutto iniziò nei primi anni '60 quando un ragazzo di Portland in Oregon, USA, prese un Master in Business Administration presso la Stanford University presentando un paper in cui analizzava le possibilità di successo sui mercati occidentali delle scarpe da corsa giapponesi. Quel ragazzo si chiamava Phil Knight e il paper può essere considerato lo spunto di partenza per la creazione della Nike.
10. Nike: la storia della nascita di un colosso
Knight sembrava destinato a una carriera nel mondo della finanza. Aveva infatti lavorato nelle società di revisione Coopers & Lybrand e Price Waterhouse, e aveva insegnato contabilità presso la Portland State University. Ma era anche uno sportivo: era stato un discreto mezzofondista durante il suo trascorso alla Oregon University e aveva fatto parte della squadra allenata dal leggendario coach Bill Bowerman.
Knight non si sentiva tagliato per una vita impiegatizia: cercava di più, voleva creare qualcosa che desse un senso profondo alla propria esistenza.
Nel 1962, subito dopo il master a Stanford decide di prendersi un anno sabbatico e girare il mondo. Come narrato nel suo "L’arte della vittoria", Knight intraprende un viaggio durante il quale si convince definitivamente della necessità di avviare un'attività in proprio. Trovandosi a passare per il Giappone riprende in mano la sua idea sviluppata a Stanford sulle scarpe da corsa giapponesi. Incredibilmente, ma erano altri tempi, riesce a ottenere un appuntamento con il presidente della Onitsuka, azienda produttrice di scarpe da corsa molto buone e convenienti.
Knight riesce a convincere i giapponesi e a ottenere un contratto per la distribuzione delle loro scarpe negli USA: l'avventura poteva iniziare.
I primi tempi sono stati decisamente complicati: Knight continuava a lavorare come contabile e vendeva le scarpe Onitsuka, andando in giro per piste di atletica con la sua Plymouth Valiant. Ma utilizzando la rete di mezzofondisti di Bowerman riuscì a vendere tutte le scarpe che arrivavano dal Giappone e a superare i momenti di difficoltà. Il coach venne coinvolto dall'impresa di Knight al punto tale da diventare suo socio nel 1964 nella Blue Ribbon Sports.
Gli affari andavano bene ma non altrettanto i rapporti con Onitsuka: le consegne erano sempre in ritardo e questo creava notevoli problemi di liquidità a Knight. Inoltre scoprì che i giapponesi avevano siglato un contratto di distribuzione con un allenatore di wrestling della East Coast. Si rese quindi necessario un viaggio in Giappone per chiarire la questione: lo scontro venne risolto affidando a Knight la distribuzione di scarpe da running negli Stati della West Coast e al coach quella di scarpe da wrestling in tutti gli USA. Ma la vicenda era ben lontana dalla conclusione.
La storia del fondatore di Nike 21 min
L’arte della vittoria
11. Il difficile rapporto con Onitsuka e lo strappo finale
Le consegne da parte di Onitsuka continuavano a essere in ritardo e nel 1966 Knight scoprì il perché. Un cliente gli riferì che riusciva a ottenere con puntualità le scarpe da running giapponesi da un altro distributore: l'allenatore di wrestling. Fu definitivamente chiaro che alla Onitsuka non credevano nelle capacità della Blue Ribbon e si guardavano intorno alla ricerca di partner commerciali più strutturati. Knight prese di nuovo l'aereo per il Giappone per tentare di ottenere la fiducia del produttore nipponico. E ci riuscì mentendo: disse che aveva un nuovo negozio a Los Angeles e uffici sulla East Coast, riuscendo a ottenere un contratto triennale di distribuzione in esclusiva per scarpe da running in tutti gli USA.
Il problema però si ripresenta tre anni dopo. Le vendite sono in ascesa e Knight vuole crescere, ma ha bisogno di maggiori sicurezze: vorrebbe un contratto di distribuzione per almeno cinque anni. Niente da fare: Onitsuka è irremovibile sulla durata triennale. Knight accetta, ma inizia a nutrire sospetti sulle reali intenzioni dei giapponesi. I sospetti trovano parziale conferma pochi mesi dopo quando le consegne tornano a essere in ritardo e con modelli e taglie sbagliate. La conferma definitiva arriva quando viene a sapere che un distributore di scarpe della East Coast è stato contattato da Onitsuka per diventare distributore esclusivo per gli USA.
Era arrivato il momento dello strappo. Nel 1971 la Blue Ribbon decise di troncare i rapporti con la Onitsuka e iniziò a produrre in proprio le scarpe da corsa, cambiando nome in Nike. Questo grazie all'appoggio della Nissho Iwai, una società di import-export giapponese: per il tramite di quest'ultima vennero stabiliti contatti con fabbriche del Paese del Sol Levante, che agirono come contoterzisti nella fase iniziale di sviluppo della produzione di Nike. Successivamente le tensioni con Onitsuka sfociarono in una controversia legale, ma la strada era ormai segnata e la creatura di Knight iniziò a muoversi con le proprie gambe.
12. La quotazione in borsa: decisione dolorosa ma necessaria
Nike decollò definitivamente nel dicembre 1980 quando venne quotata in borsa con l'obiettivo di avere un accesso diretto al mercato dei capitali e quindi poter meglio sostenere dal punto di vista finanziario la crescita di quello che era ormai diventato un colosso. Fu una decisione molto complessa per Knight perché quando una società va sul mercato azionario diventa pubblica e chiunque può acquistare una parte del capitale ed eventualmente assumerne il controllo: una prospettiva difficile da mandare giù per colui che aveva rischiato tanto e lavorato anche di più per inseguire un sogno.
Ma Knight era cosciente che la quotazione a Wall Street era l'unica strada per fornire a Nike la solidità finanziaria necessaria per compiere il definitivo salto di qualità. E così è stato.
La storia della casa dello “swoosh”, ovvero il celebre logo a forma di baffo, è un esempio cristallino di resilienza, ovvero di riadattamento della propria organizzazione rispetto agli attacchi esterni. Tutte le vicissitudini e il rapporto contrastato con Onitsuka, la decisione di troncare per difendersi da una possibile offensiva, l'avvio della produzione in proprio e quindi un cambiamento radicale della prospettiva precedente, e infine l'approdo sul mercato azionario con conseguente trasformazione in public company: una lunga serie di cambiamenti dell'ambiente esterno che hanno obbligato Knight a modificare l'assetto della società per andare avanti.
13. Resilienza e procrastinazione: un tentativo di sintesi
Quella di Nike è una storia di successo, una storia in cui il fondatore è stato capace di reagire con prontezza alle minacce che, una dietro l'altra, avrebbero potuto annientare la sua creatura. Letto da questa prospettiva, sembra un modo di agire naturale: di fronte a una difficoltà si cerca di azionare le migliori energie di cui disponiamo per superare i problemi. In realtà la reazione alle difficoltà non è così scontata. Rob Moore nel suo “Start Now. Get Perfect Later” tratta del concetto di procrastinazione come reazione di fronte a una minaccia: si tenta di sfuggire a un pericolo per sopravvivere o per conservare energie vitali.
Secondo Moore questo atteggiamento non è del tutto negativo: anzi è stato fondamentale per l'evoluzione della nostra specie. Ha infatti permesso all'uomo di superare ostacoli che se affrontati in modo repentino avrebbero respinto con perdite ogni tentativo. Procrastinare una decisione o una reazione, se serve ad analizzare proattivamente il problema, può essere una buona soluzione. Prendere il giusto tempo per sviscerare gli aspetti di una situazione difficile permette di avere strumenti migliori per trovare una via di uscita. I concetti fondamentali sono evidentemente rappresentati dalla misura del tempo dedicato alla soluzione del problema e dall'efficacia dell'analisi applicata al problema stesso. In questo senso resilienza e procrastinazione possono trovare un punto di equilibrio.
Come vincere la lotta contro la procrastinazione 24 min
Start Now. Get Perfect Later
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